Foto Ap, via LaPresse

L'Italia del ping pong. Intervista alle Azzure, Giorgia Piccolin e Debora Vivarelli

Giorgio Burreddu

Le due atlete rappresenteranno l'Italia ai Giochi olimpi di Parigi 2024. "In Nazionale siamo le più grandi. Ci siamo costruite la squadra attorno, abbiamo lottato. Altre nazioni schierano le asiatiche naturalizzate, noi no. Non è una cosa da poco"

Non sono figlie di uno sport minore, ma ragazze con la pistola. Solo che la pistola è una racchetta e i duelli si giocano attorno al tavolo da ping-pong. L’Italia che va ai Giochi di Parigi 2024 si porta in valigia anche sogni e fatiche di Giorgia Piccolin e Debora Vivarelli, pongiste azzurre mica per caso. Brutto dirlo, ma diciamolo: "Non andiamo ai Giochi per una medaglia. Esserci è quasi come vincerla, la partecipazione non è scontata".

Debora entrò in Nazionale che aveva vent’anni, da dodici trascina il movimento. Per lei è un family affair: giocano mamma (che ha una società), papà, le due sorelle (Elisa ha smesso dopo il primo figlio; Evelyn, la più piccola, si allena con Debora). E il cognato, che la allena. Il marito invece gioca a hockey, a Bolzano, fa il portiere. Debora è allegra, vulcanica, esuberante. Vive di sport. A quindici anni si trasferì a Milano. Andava a scuola con Balotelli, Obi, Garritano. Saranno famosi all’Inter. Milionari solo alcuni (ogni riferimento al calcio è puramente casuale). "È stata una grande esperienza di vita", racconta. Ama Lindsey Vonn, la sciatrice, "l’apoteosi dello sport: una che non molla mai, che si spacca e riparte. Pazzesca". E poi Federica Pellegrini, Tania Cagnotto e ovviamente Sinner. "È delle mie parti, adesso tutti sanno dov’è l’Alto-Adige. Italiani, ma delle valli". Debora è piena di coraggio. "In Nazionale io e Giorgia siamo le più grandi. Ci siamo costruite la squadra attorno, abbiamo lottato. Altre nazioni schierano le asiatiche naturalizzate, noi no. Non è una cosa da poco". Lottano per arrivare più su, per scalare il ranking, ma il panorama europeo e mondiale è un piano inclinato. In Germania hanno dato il passaporto a due cinesi, in Lussemburgo hanno tesserato Ni Xialian, 60 anni, quella che nel circuito chiamano tutti nonna. Durissima da battere.

 

Giorgia Piccolin (foto Ansa) 
   

Non passa in tv, nessuno lo ha mai reso uno show. Eppure l’Italia del tennistavolo conta 35.000 tesserati e 700 società. C’è un centro federale a Terni, lì si fa l’Italia del ping-pong. La federazione investe quel che può, professionalizza le società e il grande progetto “Scuole di Tennistavolo” ha già permesso di dare vita a 222 centri che insegnano pongistica. Al vertice della piramide ci sono gli atleti, come sempre. "È uno sport molto difficile - racconta Debora -, è come giocare a scacchi correndo i cento metri: ci vogliono forza, velocità, esplosività e prevedere le mosse del tuo avversario. Se qualcosa di buono hanno fatto i social è dare visibilità e voce anche a sport come il nostro. Non ci chiedono più se sudiamo o no. Ma è un fatto culturale: molti sport non vincono medaglie e sono considerati meno del nostro". I paesi asiatici investono molti quattrini e altrettanto tempo. Vincono, e allora tutti provano a imitarli. Anche noi. Debora ha avuto un maestro cinese, prima del Covid si andavano a fare stage in Cina. Domanda: allora perché noi le medaglie non le vinciamo? "Perché loro iniziano molto prima ad allenarsi, a cinque anni sono già sul pezzo. Sono macchine perfette. Da noi si parte a tredici anni". Negli ultimi dieci anni solo due atlete romene sono riuscite a battere le cinesi. "Quelle che si avvicinano di più al talento asiatico sono mancine". L’Italia se la gioca con le prime venti al mondo che non hanno atlete naturalizzate.

Le Olimpiadi sono un’altra cosa. Per Giorgia sarà la prima, per Debora il bis dopo Tokyo. In Giappone, causa pandemia, parenti e amici erano rimasti a casa. "Mi sono sentita sola, mi sono portata via solo un pupazzetto". Questa volta sarà diverso. "A Parigi ci sarà tutta la mia famiglia, mio marito, sarà bellissimo. Mi porterò il mio cuscino perché mi fa sentire a casa", racconta Debora. Ah, la Ville Lumière. "Parigi e Tokyo sono le mie due città preferite - racconta Debora -, ma di Parigi amo l’atmosfera, mi affascina. Ho una connessione forte con il luogo".

A Rio nessun pongista azzurro si era qualificato, a Tokyo solo Vivarelli. Questa volta sono in due. "Passare un paio di turni sarebbe un buon traguardo. Ho fatto dei buoni risultati quest’anno. Ci vado consapevole del livello che ho, e se lo mantengo posso fare bene". Quello del tennistavolo - quello italiano, almeno - è un mondo che si regge sulle passioni. Sì, il costo degli attrezzi è limitato. Una volta le racchette le facevano a mano, usavano legno buono. Oggi durano meno, ma funzionano lo stesso. Al massimo si cambiano le gomme sulle facce delle racchette prima di ogni partita.

   

Debora Vivarelli (foto Ansa)
    

I problemi sono altri: i montepremi, per esempio, che sono molto bassi. Si può arrivare a intascare 400 euro per una semifinale in un torneo della grandezza di un atp 500. Per un grosso torneo si possono vincere 4.000 euro in totale. Però dentro ci devi mettere i voli, i pernottamenti, tante spese: gli atleti sono obbligati a stare tre giorni nel luogo della manifestazione. La federazione per fortuna aiuta, sostiene qualche spesa. E così l’Esercito. "Sono veramente orgogliosa di farne parte. Avere il loro supporto è fondamentale", dice Debora. Molte spese, però, finiscono a carico dell’atleta. Se non sei tra nei primi 30 del mondo è facile andare in perdita. Si viaggia tantissimo, più che negli altri sport professionistici. Ma spesso le trasferte sono in Cina, Indonesia, Filippine, Giappone. Luoghi antichi e mitici, lontanissimi. Debora, in un anno, di viaggi ne ha fatti ventitré. Fortuna che Parigi è vicina, Parigi non è più un sogno.

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