il colloquio

È ora di un grande reset per il calcio italiano: “Gli Europei? Umilianti. Serve una svolta". Parla Abodi

Claudio Cerasa

Intervista al ministro dello Sport: “Gravina? Bisogna assumersi la responsabilità degli errori. Spalletti?  Spieghi come si può andare avanti. La Serie A? Serve più autonomia, come nella Premier”

Europee o Europei: cosa viene prima? Le elezioni francesi preoccupano, inutile negarlo. Preoccupa il successo che potrebbe ottenere il partito di Le Pen. Preoccupa l’alternativa sinistra alla stessa Le Pen. E allo stesso modo, guardando in giro per il mondo, preoccupa l’ascesa di Trump, che sembra inarrestabile, e preoccupa anche il crollo di Joe Biden, che al momento non sembra avere intenzione di farsi da parte. Preoccupa tutto questo, anche nel nostro paese, ma non c’è nulla che in questo momento, in Italia, preoccupi di più di un altro tema, che sarebbe ipocrita nascondere: il futuro del calcio italiano dopo il disastro della Nazionale agli Europei in Germania. Andrea Abodi è ministro per lo Sport e i Giovani del governo Meloni e ieri ha accettato di dialogare con il Foglio su questo tema, mettendo da parte la diplomazia e concentrandosi sulle questioni che contano. Abodi dice che quella osservata in Germania, contro la Svizzera, è stata “un’immagine oggettivamente traumatica e umiliante” e aggiunge che vedere “una Nazionale che alza bandiera bianca, mettendo in campo una resa incondizionata, è il manifesto di un problema che non si può continuare a nascondere”.

 

“Il calcio italiano – ci dice Abodi – ha le sue luci, ma è condizionato dalle tante contraddizioni. Ma per provare a superarle, ciò da cui bisogna partire è, per cominciare, l’autoanalisi, l’autocritica e l’assunzione di responsabilità. Se c’è qualcuno che sbaglia e fallisce, ci deve essere qualcuno che sa assumersi la responsabilità dell’errore”. Il riferimento del ministro, naturalmente, è al presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina, ma non solo. “La Nazionale italiana, da molto tempo, sta attraversando una crisi sistemica. E in questa crisi pesa anche il fatto che nella Federcalcio italiana vi sono degli equilibri che penalizzano la promozione del talento e della competitività. Ed è complicato che la Federazione possa pensare al futuro del calcio italiano condizionata dagli interessi di parte, quelli delle singole componenti, senza ragionare sugli interessi del sistema, con una visione organica che coinvolga tutti, tenendo conto della capacità di apporto. Sono convinto che la Serie A debba esser messa nella condizione di essere più competitiva, anche mutuando il modello della Premier League inglese, contando più di quanto conti ora nei processi decisionali della Federcalcio. Il presidente Gravina ha ritenuto sufficiente, in questa fase, anticipare la data delle elezioni, senza un opportuno e auspicabile confronto in Consiglio federale. Con le debite proporzioni, come ha fatto il presidente francese Macron”.

 

Abodi non nasconde l’importanza della comprensione delle ragioni che hanno portato al disastro italiano agli Europei, disastro che arriva dopo la vittoria continentale del 2021, ma anche dopo la mancata qualificazione a due Mondiali di seguito. E il ministro dello Sport non fa fatica a dire che “queste ragioni, quindi responsabilità, siano evidentemente tecniche, nel senso più ampio del termine”. “Il commissario tecnico, Luciano Spalletti, può dare – continua il ministro – un contributo importante per spiegare perché, secondo lui, siamo tornati a casa così presto e come si può andare avanti, perché è evidente che qualcosa che non ha funzionato non solo dal punto di vista delle scelte, ma anche dal punto di vista della sintonia tra allenatore, team, giocatori”. 

 

Ma accanto a questo, dice Abodi, c’è un tema importante, un tema che al ministro sta a cuore, legato al modo in cui i giovani in Italia vengono cresciuti, formati e valorizzati. Dal punto di vista del talento di squadra qualcosa di più che buono esiste e lo testimoniano le vittorie azzurre agli Europei under 17 e 19 e il secondo posto ai Mondiali under 20. Ma ciò che sembra mancare nel calcio italiano, dice Abodi, è “il sistema con cui si individuano, allenano e valorizzano i talenti individuali, con il quale si allenano i giovani ai fondamentali del calcio, tanto più quando ci si trova di fronte a un ragazzo con i numeri”.

 

Abodi dice che l’Italia, da anni, “si concentra troppo sul modo in cui i giocatori devono stare in campo, sugli aspetti funzionali, e meno sul modo in cui i giocatori devono trattare il pallone”, e non è un caso che persino in Nazionale, nota il ministro, ci sia qualcuno che sa bene quali siano i movimenti in campo, ma fa fatica a stoppare sistematicamente un pallone. Il talento si promuove investendo sui “maestri”, su chi sa riconoscere il talento, sulla formazione selettiva e qualitativa dei formatori, prima ancora che dei giocatori. Il modello migliora anche evitando che scelte sistemiche vengano messe in discussione dalle singole componenti federali. Per esempio: “Se si ritiene opportuno dare alle seconde squadre di club di A la possibilità di competere anche per una promozione, non vengano posti limiti come in altri paesi europei, pur nella diversità delle storie e dei contesti”.

 

Abodi pensa sia importante dare alla Serie A più peso e più autonomia rispetto a quella che ha oggi, anche se non pensa che il modo più opportuno per farlo sia attraverso l’emendamento proposto dal senatore Mulè, non per il contenuto dell’emendamento stesso, ma per la tempistica e le modalità, perché la scelta sul futuro della Lega Serie A deve essere fatta in modo organico e anche tenendo conto dell’indagine conoscitiva promossa dal Parlamento. Ma rafforzare la Serie A, dice, significa prendere atto del fatto che le squadre che animano il nostro principale campionato stanno ottenendo in questi ultimi anni comunque risultati di prestigio, oggettivamente migliori rispetto a quelli della Nazionale, rendendo il calcio italiano più competitivo anche nell’attività di attrazione dei capitali. “I ricavi della Serie A non crescono, penalizzando anche la mutualità di sistema, e si allarga la forbice rispetto a quelli dei principali paesi europei. Per quanto riguarda i diritti audiovisivi, il ciclo che si è appena chiuso ha permesso di raccogliere dal mercato circa 1,3 miliardi di euro, in Italia e all’estero. L’Inghilterra ha volumi più di quattro volte superiori. La Spagna ha volumi due volte superiori. Quindici anni fa eravamo tutti alla pari. E se l’Italia è cresciuta meno degli altri bisogna capire se esiste o no un problema di carattere industriale: io dico di sì”.

 

Abodi aggiunge un tassello al suo ragionamento. “C’è un problema di pirateria molto grave, e lo stiamo contrastando come non mai e non ci fermeremo perché la pirateria alimenta l’economia criminale ed è bene che lo sappiano gli acquirenti del pezzotto. C’è anche un problema di stadi, importante, e anche qui stiamo intervenendo, con nuovi strumenti anche finanziari che agevolino i club e i comuni proprietari degli impianti.  Ma più in generale vedo un problema legato alla capacità dei club di costruire un rapporto più forte e prolifico con i tifosi, e vedo una volontà da parte degli stessi club di restare intrappolati all’interno di una serie di intermediazioni che non permettono al calcio italiano di raccogliere, su ogni fronte quello, che potrebbe ottenere, rafforzando la catena del valore: da quello delle partnership, a quello dei diritti audiovisivi, delle opportunità digitali legate anche alla valorizzazione dei dati. E la capacità di dare nuove opportunità alla fantasia nel calcio giovanile, di far crescere i talenti e di renderli competitivi è un problema non solo di organizzazione, ma anche industriale, di business, di capacità di intercettare le nuove domande, nuove esigenze. Il calcio italiano, in tutti i suoi aspetti sportivi, sociali ed economici non vale meno di quello spagnolo. Diamoci dunque quest’obiettivo. Proviamo a imparare da chi fa meglio di noi, facciamo tesoro delle sconfitte, coltiviamo la cultura della collaborazione, poniamoci l’obiettivo di creare valore e superiamo sterili personalismi. Diamo un senso alla brutta pagina che si è consumata a Berlino”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.