Jonas Vingegaard con Tadej Pogacar sulla salita che porta alla Basilica della Madonna di San Luca (foto Epa, via Ansa)

Il Foglio sportivo

Il tempo sospeso di Vingegaard al Tour de France

Giovanni Battistuzzi

Dopo la brutta caduta al Giro dei Paesi Baschi, il campione danese non pensa al futuro, pedala fiducioso e intanto sorride come mai non aveva fatto

I Pirenei sono distanti centinaia e centinaia di chilometri. Giorni e giorni da pedalare altrove, quasi in pellegrinaggio verso tanta grandezza. Da pedalare tra campagne e colline, per paesi dai nomi di santi da calendario, buoni per qualche formaggio o qualche vino al massimo notorio. Da pedalare in quella Francia che è un racconto di volate, fughe disperate, quasi sempre riacciuffate troppo presto, a volte capaci di sconvolgere per qualche giorno il normale corso degli eventi ciclistici. 

I Pirenei saranno un passaggio di un fine settimana di metà luglio, un esame preliminare, di quelli che vanno passati per evitare la disperazione dell’ultima settimana, quel senso di fine imminente che ti si attacca al groppone e da lì non se ne va. Soprattutto per chi si trova a inseguire e non era più abituato a inseguire. 

Ai Pirenei pensa Tadej Pogacar, con la tranquillità di chi ha già dimostrato di andare in salita più forte di tutti gli altri. A loro pensa Remco Evenepoel, con la certezza che sarà dura perché quando la strada sale a lungo, sa di non essere a suo agio come quell’altro. Ci pensa Primoz Roglic, con l’ardore di chi vorrebbe spaccare il mondo e con la preoccupazione che a volte non basta la buona volontà. E ci pensa anche Carlos Rodriguez, con la serenità di chi sa che può anche staccarsi perché tanto ai più interessano gli altri e tra quelli a lui quasi nessuno chiede di esserci. 

Ai Pireni pensa soprattutto Jonas Vingegaard. Conta i giorni e i chilometri che mancano, con l’animo inquieto di chi non sa cosa aspettarsi, ma anche col sorriso di chi sa che tutto sommato va fin troppo bene così. 

Intanto pedala in gruppo, spesso nelle prime posizioni del gruppo. Ed è ciò che voleva più di ogni altra cosa. Essere lì e non altrove. Vedere la strada scorrere sotto le ruote, i paesaggi correre immobili di fianco, stare in mezzo a gente con il suo stesso obbiettivo, fare il meglio possibile e magari vincere qualcosa. 

Jonas Vingegaard si è detto contento del suo rientro in gruppo dopo nemmeno tre mesi dalla caduta che lo aveva costretto in un letto d’ospedale con parecchie ossa rotte

Dopo la quarta tappa, la Pinerolo-Valloire, 138 chilometri, quella che passava per i 2.642 metri del Col du Galibier, ha detto: “Quando abbiamo iniziato il Tour de France, ci aspettavamo di perdere secondi in tre delle prime quattro tappe. Il fatto che ciò sia accaduto solo in una di queste, è qualcosa di cui possiamo essere abbastanza soddisfatti”. Quel giorno lasciò a Valloire trentasette secondi sulla strada più tredici d’abbuoni. Cinquanta secondi in totale

Se abbassi le aspettative iniziali è più facile essere soddisfatti. In questo caso però era più la realtà degli eventi passati ad aver indotto prudenza, ad aver giustificato un lieve pessimismo. 

Jonas Vingegaard si è concesso tempo non pensando al tempo. Non quello perso in questi mesi, perché ogni infortunio, ogni motivo che ti tiene lontano dalla bicicletta può benissimo essere considerato tempo perso, e non solo per i professionisti. Nemmeno quello futuro, più o meno prossimo. 

È concetto complicato il tempo. C’hanno messo parecchio, un’infinità, a stabilire che un secondo è 1/86 400 del giorno solare medio. È una convenzione il secondo, stabilita nel 1956 dal Comitato internazionale dei pesi e delle misure. Poco male che esista da sempre, da ancor prima degli uomini e dei loro tentativi di definire il meglio possibile ciò che è di questo mondo. 

È molto più semplice il tempo per i corridori. È fatto di secondi e di minuti, le ore non esistono, sono solo una parentesi riempita di pedalate, a volte una possibilità. Perché quando il ritardo si avvicina o supera l’ora, nessuno più ti considera e se vuoi andare in fuga, se riesci ad andare in fuga, ti lasciano andare senza problemi. Poi proveranno comunque a riprenderti, perché il gruppo è quasi sempre vorace e voglioso di prendersi ogni cosa, ogni traguardo. 

Jonas Vingegaard al tempo perso ha deciso di non pensarci. Si è concesso il lusso di concedersi l’opportunità di aspettare e vedere se i chilometri del Tour de France saranno gentili con lui, se riusciranno a concedergli la grazia di essere pomata lenitiva per i suoi muscoli non ancora funzionanti alla perfezione. 

E in questo tempo sospeso, che passerà pedalando coi Pirenei in testa e gli occhi colmi di altri panorami, molto meno montani, Jonas Vingegaard spera di ritrovare anche i suoi compagni di squadra, quelli che negli ultimi due anni lo hanno sorretto sempre e gli sono stati vicini ancor più di quello che era legittimo aspettarsi da loro, e che invece sul Col du Galibier lo hanno lasciato solo per impossibilità di reggere il ritmo fin troppo accelerato di Joao Almeida e Juan Ayuso. 

Questo tempo sospeso sta avendo uno strano effetto su Jonas Vingegaard. Il danese non è mai stato così sorridente. Nemmeno quando vinceva e vestiva di giallo. C’è nulla di meglio di concedersi il lusso di ignorare il tempo. 

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