1925-2024

Raphaël Geminiani lo chiamavano Grand Fusil

Gino Cervi

È morto a 99 anni il grande vecchio del ciclismo.  Di origini romagnole – suo padre, antifascista, aveva un negozio di biciclette a Lugo di Romagna ed emigrò in Francia nel 1924, un anno prima della sua nascita – Raphaël usava le parole come pallottole

A 99 anni e poco meno di un mese, se n’è andato Raphaël Geminiani. È come se fosse morto l’ultimo paladino dell’imboscata di Roncisvalle, l’ultimo cavaliere della Battaglia dei Giganti, l’ultimo testimone degli anni in cui il ciclismo era epopea popolare tramandata di bocca in bocca, come nelle chansons de geste medievali o nei poemi epici rinascimentali. Lo scriveva Roland Barthes, in un capitolo di Miti d’oggi, quando parlava del Tour de France "come epopea" e spiegava come la Grande Boucle fosse una moderna interpretazione del genere epico fin dall’onomastica dei suoi eroi a pedali. Gli epiteti rimandavano all’etnos dei protagonisti (Darrigade il Guascone, Robic il Celta, Van Dongen il Batavo…) oppure si trasformava nell’abbreviazione, un diminutivo "leggero, un po’ tenero… che testimonia in una stessa sillaba di un valore sovrumano e di un’intimità tutta umana" così che il nome "diventa veramente pubblico". Fu così per Raphaël Geminiani, che a volte era Raph, a volte Gem. Barthes non lo scrive però il vero soprannome “epico” del grande campione auvergnat, scomparso venerdì mattina a Clermont-Ferrand, la sua città natale, nella clinica di Pont-de-Chateau, dove era ricoverato da qualche settimana, era Le Grand Fusil, il “Gran fucile”. Glielo aveva appioppato proprio l’amico-rivale Louison Bobet e gli assomigliava alla perfezione.

Alto e allampanato come una lunga canna di fucile, Gem spiccava nella pancia del gruppo. Ma non era solo una similitudine fisiognomica: c’era dell’altro. Di origini romagnole – suo padre, antifascista, aveva un negozio di biciclette a Lugo di Romagna ed emigrò in Francia nel 1924, un anno prima della sua nascita – Raphaël usava le parole come pallottole. Fin da esordiente, fece capire a tutti che a lui, i piedi in testa, non li avrebbe messi nessuno, neanche i padri-padroni del Gran circo a pedali. Gem aveva il naso grosso, ciranesco, come molti dei talentuosi della bicicletta, ma il cervello era fino. Capì in fretta che, per quanto forte – nonostante la stazza, teneva benissimo in salita – la sua carriera ciclistica sarebbe stata ben più proficua se si fosse “messo a disposizione” dei fuoriclasse della sua epoca: fu così compagno di squadra, e grande amico, di Fausto Coppi, che affiancò nella vittoria al Giro del 1952, e dell’ex rivale Louison Bobet, che scortò alla conquista del Tour del 1953. Nel 1955 indossò per tre giorni la maglia rosa – e fino a ieri era il più vecchio corridore vivente a detenere questo primato – e al Tour del 1958 lottò fino alla fine per la vittoria finale, contendendo il primato a Charly Gaul e a un sorprendente Vito Favero, arrivando però a Parigi alle loro spalle tra molte polemiche e accuse di sanguinoso tradimento da parte dei suoi stessi compagni di squadra francesi.

Aveva un occhio svelto per gli affari. Capì che, con la diffusione dei media, il ciclismo attirava nuove sponsorizzazioni commerciali, e fu tra i primi – insieme a Fiorenzo Magni in Italia – a favorire la nascita di squadre che portavano il nome di un industria non ciclistica. Giocando anche sul proprio nome, nel 1954 mise in piedi la Saint-Raphaël Geminiani Dunlop. Fu anche tra i primi a esplorare i nuovi orizzonti del ciclismo globalizzato, accettando lauti ingaggi per andare a correre criterium in Africa. La trasferta nel dicembre 1959 in Alto Volta, per una serie di corse intorno a Ouagadougou, si trasformò in dramma. Dormì nella stessa stanza d’albergo e venne punto dalle stesse zanzare che punsero Fausto Coppi. Al ritorno, il Campionissimo morì, assurdamente, per aver contratto la malaria; anche Gem, colpito da fortissime febbri, dopo alcuni giorni di coma venne salvato da un’analisi del sangue dell’Istituto Pasteur che diagnosticò la causa dell’infezione. A Raphael dissero della morte dell’amico solo molto tempo dopo, per preservarlo il più possibile dal dolore.

Tornò a correre ancora per la stagione 1960, ma si ritirò pochi mesi dopo. Fu un’uscita di scena teatrale, a modo suo. Una foto lo ritrae seduto disteso sotto un albero di ciliegie in una tappa del Dauphiné, con un filo d’erba tra le labbra, mentre guarda passare il gruppo dei suoi ormai ex colleghi. Non fu un’uscita di scena definitiva dal mondo delle corse. Gem lasciò il segno ancora a lungo nella storia del ciclismo, come direttore sportivo di Anquetil (sempre alla Saint Raphaël, poi alla Ford France e infine alla Bic), di Eddy Merckx, al suo ultimo anno di professionista alla Fiat France (1977), di Stephen Roche alla Redoute (1984-85) e, infine, dei colombiani Lucho Herrera e Fabio Parra (1986). Ma per altri quattro decenni, Le Grand Fusil è stato un’entusiasmante fonte diretta di quella formidabile età dell’oro del ciclismo mondiale, a cui si poteva attingere avidamente. Il suo modo di raccontare quel suo ciclismo, così impetuoso e letterario, aveva qualcosa di rabelaisiano. Per raccontare quanto facesse caldo al Tour del 1950, sapeva usare immagini da romanzo come questa: "Quando si aprivano i portelloni dei camion frigorifero, le cosce di pollo uscivano da sole, trasportate dai vermi".

In questi giorni di Tour, a lui, alla memoria del grande auvergnat del ciclismo e delle sue storie, i cultori della materia di questo sport ancora oggi, a dispetto di tutto, così ricco di avventure umane da raccontare, sanno che possono dedicare i versi "che scaldano ancora" e che Georges Brassens dedicò al suo Auvergnat: "Ce n'était rien qu'un feu de bois // Mais il m'avait chauffé le corps // Et dans mon âme, il brûle encore // À la manière d'un feu de joie".

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