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Oltre Sinner (e la sconfitta): perché l'erba fa impazzire i tennisti

Antonio Bettanini

Erba significa campo veloce: negli scambi e nei punti. Significa obbligo di precisione e profondità in quella striscia dove la palla alza piccole nuvole di gesso, la riga di fondo, regno del challenge e delle nostre emozioni

Al lungo digiuno di vittorie tennistiche subentra ora, in noi italiani, questa inattesa bulimia di partite e tornei dove turno dopo turno, ecco s’avanza il nostro tricolore. Prendiamo allora lo stop che Medvedev ha imposto ieri a Sinner come una lezione per lui e per noi. Perché per quasi 50 anni non era mai più stato così (eccezion fatta per le vittorie rosa di Schiavone Errani Pennetta e Vinci). E non dappertutto comunque. Che nel tennis vuol dire tre superfici: la terra rossa che ha in Roland Garros l’arena più nota e in Montecarlo, Roma e Madrid tre palcoscenici minori; il cemento veloce, l’hard court degli Australian e US open; infine l’erba di Wimbledon appena una settimana dopo l’aristocratico Queen’s. Paradiso di "terricoli" l’erba è stata per noi, per anni, un pascolo tennistico precluso. Con la sola eccezione di Orlando Sirola. Il gigante fiumano, che con Pietrangeli forma la coppia regina del tennis europeo, veste per lo più solo sull’erba australiana i panni del singolarista di Davis. Perché lì il suo serve&voĺley è particolarmente letale. E il 12 dicembre 1960, al Royal King’s Park di Perth in Australia, Sirola ci porta per la prima volta in finale di Coppa Davis. Superiamo 3-2 gli Stati Uniti dando vita a una rimonta storica.

Nel doppio con Pietrangeli su Buchholz-McKinley e infine negli ultimi due singolari con Pietrangeli e Orlandone Sirola (3 set a zero a MacKay). Ma l’erba è stata fin qui una vera orticaria per noi. Mitologia della sconfitta (naturalmente a Wimbledon) e con due lampi soltanto. Di Pietrangeli che agguanta la semifinale, nel 1960, e cede al mancino australiano  Rod Laver dopo cinque drammaticissimi set (6-4, 3-6, 8-10, 6-2, 6-4). E molti anni dopo (1979) di Adriano Panatta che tutti illude di poter arrivare in fondo (alla sfida con Bjorn Borg) e si ferma invece nei quarti contro un non inarrivabile Pat Duprè Debbono passare 45 anni prìma che Musetti riesca a dire: “Quest’anno l’erba è la mia superficie preferita”. Prima di Sinner sul verde avevano vinto solo in tre. Andreas Seppi (2011), Matteo Berrettini (2019) e Lorenzo Sonego. Gli ultimi successi portano la firma di Berrettini detto The Hammer. E sono stati: Queen’s (2021); Stoccarda (2022) e di nuovo Queen’s (2022). Un palmares che annovera la finale di Wimbledon, persa contro Djokovic e una semifinale agli US open persa contro Nadal (2019). Ma ora la maledizione delle superfici che avevano reso il nostro tennis quel che il lessico sportivo chiama “cenerentola”, sembrerebbe finire: con l’avvento del campione di “tutte le virtù che non abbiamo”, Jannik Sinner. Modestia, temperanza, carattere, resistenza, gentilezza e grandezza d’animo cucite dal filo della comunicazione hanno portato il nostro tennis molto in alto, dove forse solo un ragazzo delle Dolomiti poteva arrivare. E giorni fa una sua chiosa gentile, dedicata a quel che potremmo chiamare “splendore nell’erba”, ci ha riportato a quanto il tennis cambi e ci obblighi a cambiare a seconda del terreno che siamo chiamati a calcare.

Erba significa campo veloce: negli scambi e nei punti. Obbligo di precisione e profondità in quella striscia dove la palla alza piccole nuvole di gesso, la riga di fondo, regno del challenge (quando l’occhio di falco ci dice se la palla era “buona” o no) e delle nostre emozioni. L’erba ci esige rapidi nei movimenti e flessuosi nel colpire la palla all’altezza giusta e nella giusta direzione. Amica della morbidezza ci invoglia al tuffo che peraltro già Adriano aveva sperimentato anche sulla terra rugosa. A Roma nel ’76 contro l’argentino Vilas. Nelle ginocchia, Sinner raccoglie dallo sci il testimone della flessibilità, la confidenza con il solletico liscio del terreno ora che il corpo si distende a cercare l’impatto con la palla (come un grande Pecco che in curva accarezza l’asfalto) e quasi vi si affida. Forse qui, dopo un iniziale lungo disagio (il rimbalzo è diverso, la palla schizza via) Jannik cerca appunto nell’erba una sua nuova amica (ieri è andata male, ma il tempo per rifarci c’è). Lui che sa essere “dovunque” vi sa scivolare ormai, parente del derapage sulla neve. Lei ne favorisce il recupero e allontana l’affanno delle diagonali avversarie perché lui prepari, in risposta, la traiettoria impossibile (un lungo linea “bimane” a trafiggere con una geometria la sciagurata avventurosa discesa avversaria). E non è solo un mero “adattarsi”. È un precetto ecologista del suo coach, Darren Cahill: “Be kind to the grass and it’ll be kind to you”. E lui, un poco francescano, ha deciso che la tratta e la chiamerà sorella. Sempre che non ci sia, un domani, un altro Medvedev di mezzo.

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