ciclismo

Tour de France. Pogacar e Vingegaard sono tornati inseparabili

Giovanni Battistuzzi

Tra i monti del Massiccio centrale, il Tour de France fa i conti con piani perfetti finiti male e recuperi improbabili divenuti realtà. Vince Vingegaard al colpo di reni su Pogacar al termine di una tappa appassionante

In quel volto teso e feroce, in quella bocca digrignata all'apice dello sforzo assoluto, in quel procedere disperato e velocissimo verso la linea d’arrivo, e infine vincente, c’era tutta la determinazione e l’incapacità di darsi per vinto di Jonas Vingegaard. Poteva non esserci a questo Tour de France dopo la terribile caduta di tre mesi fa al Giro dei Paesi Baschi, è in corsa. Nessuno si sarebbe meravigliato se fosse arrivato a minuti e minuti dai primi, non è successo. Anzi. Oggi ha vinto. 

Ha pianto Jonas Vingegaard dopo l’arrivo, davanti alle telecamere, perché se il campione in bicicletta ha vinto, l’uomo che sta dietro e dento il campione in bicicletta si è preso una rivincita sugli imprevisti. L’uomo che aveva visto i suoi sogni andare in fuga da lui, è riuscito a inseguirli e, almeno per oggi, riacciuffarli, grazie al lavoro, alla fatica, alla sofferenza di un ritorno sui pedali. 

In quei due sbuffi contrariati, il primo nelle ultime centinaia di metri che portavano alla cima del Col de Pertus, il secondo appena dopo aver superato la linea d’arrivo, c’era invece il disappunto di Tadej Pogacar per quello che poteva essere e che invece non è stato. È durato poco il disappunto. Lo sloveno ha guardato la maglia gialla e ha ritrovato il sorriso, la sua naturale condizione nella vita e nel ciclismo. Chi è davanti vive il ciclismo meglio di chi insegue. 

I Pirenei sono ancora lontani qualche giorno. Il presente era fatto di salite molto meno nobili per pedigree nella 11esima tappa del Tour de France, la Évaux-les-Bains-Le Lioran, 211 chilometri. 

Il Massiccio centrale è luogo buono per fughe e imboscate, è sempre stato così. Non oggi. L’idea che poteva essere terreno per uomini coraggiosi in semilibera uscita è stata spazzata via dai fatti nell’avvicinamento al Col de Néronne. La squadra della maglia gialla ha controllato con il bilancino il distacco dalla fuga. E ancor prima nelle dichiarazioni di Tadej Pogacar del mattino. Aveva dato appuntamento a tutti sulla salita che portava in cima al Puy Mary, proprio lì dove i tifosi di Romain Bardet si erano dati appuntamento per far festa al loro beniamino, per salutarlo alla sua ultima apparizione sulle strade francesi della Grand Boucle

 

      

Ha mantenuto la parola lo sloveno. A circa ottocento metri dal Gran premio della montagna. Uno scatto secco, il solito, il vuoto alle sue spalle, al solito. Meno però delle altre volte. Jonas Vingegaard ha inseguito del suo passo, non ha perso troppo, verso la cima si è riuscito pure ad avvicinare. 

Tadej Pogacar aveva capito sul Col du Galibier che se in salita gli avversari sono quasi a suo livello, non lo sono in discesa. E così ha provato a ripetere il buon piano alpino. Conti esatti. Almeno sino a valle. Poi qualcosa non è andato secondo i piani, forse per una leggera crisi di fame, forse per qualche calcolo sbagliato. 

Poco male, almeno per noi. Quelli che erano stati abituati a sentir dire che il ciclismo è bilanciamento degli sforzi; quelli che erano stato abituati a sentir dire che ci volevano tappe corte e grandi salite per fare la differenza; quelli che erano stati abituati alla scientificità della tattica di gare, ai trenini di uomini con la stessa maglia a velocità aumentata in progressione costante.  

Le grandi montagne sono un futuro prossimo, i corridori hanno animato il pomeriggio di una lunga tappa con salite di media lunghezza. 

Rileggendo, cent’anni dopo, le peripezie ciclistiche di Ottavio Bottecchia al Tour de France 1924, il primo vinto dal corridore veneto; rileggendo le fughe infinite, i recuperi e i ribaltamenti in testa alla corsa, possiamo capire, e la contemporaneità ci dà una mano, cos’era davvero quel ciclismo e perché, un secolo dopo, il ciclismo è ancora uno sport di uomini viandanti, di corridori continuamente in sospensione tra il desiderio e la realtà, tra certezze granitiche come i cocuzzoli di certe montagne e viscose paure come certi paludi che si affacciano ancora ai lati delle strade del ciclismo. 

 

Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar sull'ultima salita della 11a tappa del Tour de France 2024 (foto Getty Images)  
    

In appena una dozzina di chilometri il Tour de France di Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard è cambiato per non cambiare affatto. Perché tutti e due sanno benissimo di essere uno il contraltare dell’altro, uno la nemesi dell’altro. Di essere due, ma anche uno. Di volere mettere una distanza dall’altro pur essendo inseparabili. Come sotto lo striscione d'arrivo, uno a fianco dell'altro, in un colpo di reni ascensionale.

E intanto dietro di loro, Remco Evenpoel si è staccato, ma non troppo, ha avuto la conferma di non avere ancora il loro passo in salita e in discesa, ma che non tutto è perduto e che non si può davvero sapere cosa il Tour avrà in serbo per lui e per loro. Così come Primoz Roglic, prima di cadere ancora una volta, l'ennesima volta, celebrando ancora il suo rapporto complicato e strettissimo con la gravità. Perché in fondo il Tour, il ciclismo, non è diverso da Le Lioran, soltanto una resistenza a un territorio ostile, ma che con un po’ di inventiva e di speranza nel futuro, può trasformarsi in un luogo ambito da tutti i francesi per la bellezza dei sentieri e delle piste da sci (soprattutto di fondo). Almeno sino a quando la neve continuerà a cadere. 

Di più su questi argomenti: