lettere dalla Grande Boucle
Il Tour de France secondo Gianni Mura
Il giornalista seguì 32 Tour. Le sue paginate su Repubblica erano banchetti in cui lui serviva di tutto: dalla cronaca al contorno
Se il Tour è il Tour, allora Mura è Mura. Il principio di identità del Tour de France viene enunciato dai francesi un po’ per grandeur, un po’ per fretta, un po’ anche per ignoranza. Quello per Gianni Mura è per restituirgli una sua originalità rispetto a Gianni Brera, di cui veniva sempre indicato un po’ come il discepolo, un po’ come l’erede, un po’ addirittura come il figlio. Intanto, per dirne una, al Tour de France tutti conoscevano e riconoscevano Mura, ma non Brera.
Mura debuttò “inesperto” al Tour a 22 anni “non suonati”. Le virgolette custodiscono le sue parole. E di parole, al Tour, per il Tour, con il Tour, dal Tour, ne riversò in quantità e in qualità, entrambe altissime. Quel primo Tour, dunque, nel 1967 - primo Pingeon, secondo Jimenez, terzo Balmamion – per “La Gazzetta dello Sport”. “Il Muscadet lo sceglievano gli altri, io stavo zitto perché non avevo nulla da dire. Sull’Opel Caravan celeste mutanda, ‘Gazzetta dello sport’ scritto in bianco sulle fiancate, al volante Ezio Graziani, omone bustocco dall’aria da orco, in realtà buono come il pane, già nazionale di rugby. A destra Bruno Raschi, detto il Divino Maestro, prima firma, riusciva a scrivere a mano su un grande taccuino anche nella discesa del Tourmalet, mai capito come facesse. Dietro a lui Rino Negri, seconda firma, detto il cardinal Colombo della pedivella, anche lui riusciva a scrivere nella discesa del Tourmalet, a macchina però, mai capito come facesse. I soprannomi li aveva dati Graziani. A fianco di Negri io, ragazzo di bottega e al momento senza soprannomi. Riuscivo a scrivere solo giù dall’auto e dovevo andare veloce per non restare indietro. Il soprannome l’avrei avuto più in là, a Colmar. Che gli altri conoscevano benissimo, per me era sempre la prima volta e chissà quando ci sarei tornato. Così interruppi una consolidata tradizione gazzettiera (si mangia sempre tutti insieme) e andai alla scoperta di Colmar con nuvola di Fantozzi incorporata e mentre marciavo remigando sotto l’acqua i gazzettieri mi videro dal vetro di una brasserie e Graziani esclamò: ‘Tel lì l’anadôn’ (‘Eccolo, l’anatrone’)”.
Mura ne avrebbe seguiti altri 32, di Tour. Era la sua vacanza, se vacanza significa staccarsi da casa (lui due a Milano, quella con Paola dalle parti della Stazione Centrale e quella con la redazione di “Repubblica”), se vacanza significa noleggiare un’auto (nome di battesimo qualunque marca fosse, “la troia”, perché di tappa in tappa si riempiva di tutto caoticamente) con un autista (Carletto Pierelli, occasionalmente Alessandro Grazioli, Fabrizio Cadelano, Osvaldo Bettoni, Giancarlo Dionisio) e farsela tutta davanti a destra (seguendo il libro del Tour e la guida Michelin), se vacanza significa scrivere a ruota libera di corsa e corridori, ma anche di santi e re, fegato di oca e torte di mele, nasi rossi e occhi azzurri, fisarmoniche e violini, baguette e pastis, Edith Piaf ma anche Giovanna Marini, l’Armagnac e le Gauloises. Le sue paginate. In luglio c’è chi acquistava “la Repubblica” solo per sentirsi in quei vialoni scanditi di ippocastani o in quei borghi ingentiliti di gerani o in quelle bettole che sapevano di rochefort, insomma, con lui.
Le paginate di Mura erano banchetti in cui lui serviva di tutto. Metodo Pastamatic, cercava di sminuire. Altroché. Letteratura, esaltando quella sportiva. Pantani, per esempio: “Marco Pantani originario di Sarsina, il paese di Plauto, dove ancora nella chiesa di San Vicinio si curano gli indemoniati con un collare di ferro, non è un ciclista. È un cuore in bicicletta. Più si sale e ci si avvicina al cielo, più questo cuore batte, ribatte, combatte. E abbatte Ullrich, ma vedere in questo la storia di Davide e Golia sarebbe assai banale. Cercheremo di meglio, sperando di trovarlo, coi nostri violini di parole di carta. A volte, è anche bello dire semplicemente: grazie”. Era il Tour del 1998, quello della doppietta con il Giro, l’anno Everest prima della Fossa delle Marianne. E in morte di Raymond Poulidor: “Era Poupou, parola che mi è sempre andata di traverso, è un nome da barboncino, non da campione. La uso adesso che è morto, ma a lui stava bene, e poi in Francia va così: Trousselier era Troutrou, Christophe era Cricri, Pingeon Pinpin, Jalabert sarebbe stato Jaja. Nel vocabolario dei francesi è entrata la parola poupoularité, perché nelle sue sconfitte, dovute a tranelli o a una jella pazzesca, cosmica, roba che nemmeno Paolino Paperino, c’era la grandezza di Ettore che soccombe ad Achille, al destino cinico e baro, alle congiure, alle stelle contrarie”.
Mura ha dedicato al Tour almeno due libri, “Giallo su Giallo” (Feltrinelli, 2007), un giallo – appunto – ambientato nella competizione dove il primo nella classifica generale è contraddistinto dalla maglia gialla, e “La fiamma rossa” (Minimum Fax, 2008), una raccolta di storie dei suoi Tour, e la fiamma rossa è quel triangolo esposto quando manca un chilometro al traguardo. Almeno due libri perché anche negli altri – ne scrisse sette, dal 2007 al 2017, più un precedente libriccino di poesie finanziato da Gualtiero Zanetti, allora suo direttore alla “Gazzetta dello Sport” – si annusa, si sente, si mastica, si legge, si rumina di Tour de France.