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L'addio triste ma inevitabile di Ciro Immobile

Marco Gaetani

L'attaccante campano lascerà la Serie A dopo 201 gol in 353 partite. È la fine definitiva di un’epoca, quella del trio Milinkovic-Luis Alberto-Immobile, il periodo d’oro della Lazio inzaghiana

Fino a che punto si deve continuare insieme prima di dire basta? Più che una domanda, è un assillo per tante società italiane che nel corso degli ultimi anni si sono trovate spesso a interrogarsi sull’opportunità o meno di stringersi in un abbraccio infinito alle loro bandiere. Fino a un paio di stagioni fa, sembrava che per Ciro Immobile non potesse esserci un futuro lontano da Roma: aveva già sperimentato, senza particolare fortuna, l’avventura all’estero. Allo stesso tempo, pareva impossibile immaginare un’offerta per lui da parte di una big italiana. Si era dunque creato un contesto idilliaco, perfetto: l’incontro ideale tra due realtà che sapevano esattamente cosa aspettarsi l’una dall’altra.

Poi, però, sono arrivate due annate in cui gli infortuni hanno avuto la meglio. Immobile ha pagato all’improvviso lo scotto del tempo, degli scatti uno in fila all’altro che per anni gli hanno consentito di sconquassare le difese della Serie A: il tassametro dei suoi gol nella massima categoria con ogni probabilità non si scosterà più da quota 201 in 353 partite, la media migliore della top 10 di tutti i tempi se si escludono gli irreali 225 in 291 gare di Nordahl, ma a fare impressione sono soprattutto i 150 segnati in 208 gare di campionato, nei primi sei anni di Lazio, cifre fuori dal tempo, rientrate nei binari della normalità soltanto per colpa delle ultime due stagioni (da 19 gol in 62 partite di Serie A). L’addio di Immobile alla Lazio sta prendendo contorni tristi, cupi, malinconici: un peso da scaricare (quello dell’ingaggio che dovrebbe percepire da qui fino al 2026) in relazione a prestazioni che non sono più all’altezza della versione migliore dell’attaccante campano.

È la fine definitiva di un’epoca, quella del trio Milinkovic-Luis Alberto-Immobile, il periodo d’oro della Lazio inzaghiana che va definitivamente in soffitta nonostante i tentativi di rianimarlo con Sarri, riuscito solo in parte. Non doveva nemmeno arrivare alla Lazio, Immobile, perché Igli Tare avrebbe voluto scommettere su Enner Valencia: alla fine fu decisivo anche il parere di Inzaghi per chiudere un affare che ha consegnato ai biancocelesti (e alla Serie A) un attaccante che per qualche anno ha trovato la porta in ogni modo, di destro e di sinistro, di testa e su rigore. A differenza di altri due colleghi campani, Quagliarella e Di Natale, Immobile ha fatto più fatica a fare i conti con l’usura del tempo che passa: troppo fisico e dispendioso il suo modo di interpretare il ruolo per riciclarsi nei panni di stoccatore mortifero nei sedici metri.

È arrivato il Besiktas dopo le voci sull’Arabia Saudita dello scorso anno: Immobile si era impuntato, voleva un ultimo giro in Champions League, puntava a scollinare quota 200 gol in A, sognava un addio da protagonista, forse persino di rimanere centrale nei discorsi di Spalletti, che ha preferito farlo fuori dalla Nazionale ed è stato ripagato da una rotazione di centravanti ai limiti del tragico durante l’Europeo, così disastrosa da indurre addirittura qualche rimpianto nei confronti di un giocatore storicamente bistrattato dai tifosi azzurri. Per preservarne il ricordo, forse, il momento giusto per il divorzio è proprio questo: la fine di un ciclo, i doverosi applausi, il nome perennemente legato al biancoceleste. Un addio triste, ma inevitabile.

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