Remco Evenepoel sugli sterrati del Tour de France (foto Ap, via LaPresse)

Il Foglio sportivo

Il Tour de France del Remco Evenepoel uomo

Giovanni Battistuzzi

In Francia, lungo le strade della Grande Boucle, stiamo assistendo all’avvio dell’età della sua consapevolezza

A Le Lioran, mentre pedalava le ultime decine di metri che gli mancavano per raggiungere il traguardo della undicesima tappa di questo Tour de France, sul volto di Remco Evenepoel è apparso un sorriso compiaciuto. Era solo, ma non era primo. Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar erano già arrivati da oltre una dozzina di secondi (saranno venticinque a fine tappa). Lui non aveva retto la violenza dello scatto della maglia gialla e nemmeno il ritmo furioso del danese. Si era staccato, aveva rincorso, aveva perso oltre mezzo minuto, aveva recuperato qualcosa sulle ultime rampe. Eppure sembrava sereno, tranquillo e a posto con sé stesso, in armonia con ciò che gli stava attorno e soprattutto davanti, come non lo avevamo mai visto. 

Dopo un Mondiale in linea e uno a cronometro, dopo una Vuelta terminata in maglia rossa, dopo due Liegi-Bastogne-Liegi, dopo oltre una cinquantina di corse vinte a nemmeno venticinque anni, Remco Evenepoel, forse per la prima volta da quando corre tra i professionisti, sembrava, pur nella non vittoria, rilassato, orgoglioso per quello che stava facendo

A Le Lioran, in quel Massiccio centrale caldo e snervante, pericoloso e affascinante nella sua desolazione piena di vuoti e panorami capaci di sorprendere, Remco Evenepoel ha capito che forse che il ciclismo non è predestinazione, non solo almeno, ma foga e cattiveria, sputi e sangue, gambe che fanno male e polmoni che bruciano.

Non è facile accorgersi di questo, capire profondamente il senso di tutto questo. Soprattutto quando si è sempre posseduto la capacità di trasformare con una facilità a tratti imbarazzante il pedalare in vittoria, quando si è consapevoli di avere un talento enorme, se non smisurato, quanto meno assai abbondante. 

Remco Evenepoel tra il Col du Galibier e le salite del Massiccio Centrale ha compreso perfettamente quello che non è. Non è come quegli altri due, Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard, non ha la loro leggerezza in salita, la loro capacità di trasformare la strada che sale in rampa di lancio. Non ha il dono dell’esplosività continua, il cambio di passo capace di rendere inutili le contromisure altrui. Si è reso conto di essere diverso da loro, di non poterli ancora sfidare, di dover cambiare per poterlo fare. 

È diventato davvero uomo, Remco Evenepoel. 

Ha compreso che un campione non è solo un corridore che va forte, che sa andare più forte degli altri, ma è soprattutto un corridore che sa vuole esser sempre l’unica e la sola causa di quel che gli accade. Che non esistono giustificazioni o eventi sfortunati capaci a mettersi di mezzo tra lui e il suo obbiettivo. Che l’immagine di vincente che si prova a dare in pasto agli altri, a inculcarsi in sé conta poco o nulla, perché l’unica cosa che conta sono le gambe, la capacità di farle funzionare e quella di capire sino a dove possono spingersi, ti possono spingere. E che solo comprendenndo questo ci si può spingere oltre. 

Dai Pirenei a Nizza, passando per la costa mediterranea e le Alpi francesi, saranno i giorni più importanti della carriera di Remco Evenepoel. E indipendentemente da come andranno, indipendentemente se a Nizza salirà o meno sul podio. Quelli che possono trasformare un corridore eccezionale, un campione, in un corridore ancora più eccezionale, in un campione finalmente consapevole di se stesso, delle proprie capacità e dei propri, pochi, limiti. 

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