lettere dalla Grande Boucle
Il Tour de France secondo Albert Londres
Nel 1924 il grande giornalista, uno dei padri del giornalismo investigativo, si aggregò al Tour de France per il Petit Parisien. Era il primo dei due Tour consecutivi conquistati da Ottavio Bottecchia
I suoi primi libri erano affollati di numeri: libri contabili. Ma erano anche la sua prima fonte di soldi, dunque di libertà. Il suo primo libro, il primo scritto da lui, raccoglieva poesie (“Suivant les heures”). Intanto, per campare, scriveva non libri ma articoli. E così continuò. Dalla cronaca bianca a quella parlamentare, dalla vita politica a quella militare, agli esteri, dalla Serbia all’Albania, dall’Unione Sovietica al Giappone e alla Cina, infine anche allo sport. Era il 1924. E da allora altri suoi libri, scritti da lui. E da allora il giornalismo sportivo, grazie a lui e ai suoi libri, non sarebbe stato più lo stesso.
Albert Londres. Francese di Vichy. Considerato uno dei padri del giornalismo investigativo, cioè del giornalismo, che non è altro che andare e vedere e scrivere, scrivere quello che hai visto, scrivere la verità. A costo di lasciarci le penne, non solo quelle con l’inchiostro. Nel 1924 Londres si aggregò al Tour de France: era il primo dei due Tour consecutivi conquistati da Ottavio Bottecchia, ed è anche per questa coincidenza che oggi si legge e si scrive tanto di Londres. Le sue parole, in assenza di immagini, fanno fede, costruiscono – appunto – la verità come un mosaico di mille tessere.
“Ieri, alle undici e mezzo di sera, stavano ancora cenando in un ristorante di Porte Maillot; facevano pensare a una sfilata sulla laguna veneziana, poiché quegli uomini, con le loro maglie variopinte, visti da lontano sembravano lampioni di carta. Poi bevvero un ultimo bicchiere. Ciò fatto, si alzarono da tavola e cercarono di uscire, ma la folla li portò in trionfo. Si trattava dei corridori ciclisti in partenza per il Tour de France”.
È l’attacco del primo pezzo su quel Tour (per “Le Petit Parisien”), ed è anche l’attacco del libro “Tour de France / Tour de souffrance” (pubblicato la prima volta nel 1996 e tradotto solo nel 2008 da Excelsior 1881, 176 pagine, 21,50 euro, arricchito di fotografie di ineguagliabile valore storico ma anche emotivo). Londres è lì. Registra, documenta. Descrive, pennella. Indaga, investiga. E lo fa in prima persona, proprio perché è lì. Lì per loro, con loro, fra di loro. In loro. E il risultato è felicemente drammatico, impressionante e coinvolgente: “Ecco che un casellante spezza in due il plotone: arriva un treno. Cinque ragazzi che non erano riusciti a passare, saltano giù di sella, sollevano le loro macchine e attraversano i binari, davanti alla locomotiva che li sfiora. Il casellante lancia un grido di spavento, ma i cinque sono già di nuovo in sella e spingono sui pedali”, “Non fanno il Tour de France per passeggiare, come mi piaceva credere, ma per correre. Oggi corrono fino a Le Havre, senza nemmeno respirare, come se stessero correndo a chiamare un medico per la loro madre in pericolo di morte”, “I caschi che alla partenza erano bianchi, ora sono sporchi, macchiati di fango; sembrano bende da feriti di guerra”.
Londres dà il meglio quando la strada sale sui Pirenei e poi sulle Alpi: “La fatica sta dando loro il colpo di grazia: procedono tutti lentamente, ma a testa bassa, come il bue che si appresta a ricevere l’ultimo colpo dal macellaio. I muscoli delle cosce sono tesi, Jacquinot avanza, digrignando i denti, come se chiedesse aiuto alla sua mascella. Vanno avanti a colpi di volontà”, “Attaccano il Tourmalet con i movimenti di chi sta per scagliarsi con la testa contro un muro”. Ed ecco Bottecchia: “È talmente in alto, che nessuno sa più dove sia”, “Passando, guardo di quando in quando nei burroni, ma non è nemmeno lì”, “Ma appena un po’ più in là intravedo qualcosa che avanza: è il naso di Bottecchia. E siccome dietro quel naso segue tutto il resto di Bottecchia, ho finalmente acciuffato il corridore. Avanza a falcate, preciso come il bilanciere di un pendolo”, “Bottecchia canta. Canta in italiano una canzone di Smirne che dice all’incirca: ‘Ho visto gli occhi più belli del mondo, ma belli come i tuoi, io non ne ho visti mai’. Non bisogna credere a ciò che dice Bottecchia. Quando, come lui, si portano occhiali colorati con svariati etti di polvere su ogni lente è impossibile giudicare gli occhi delle donne francesi”.
A proposito di occhi: “A Pissos, Barthélemy si infila il suo occhio di vetro in tasca e lo rimpiazza con del cotone che nulla ha di idrofilo. ‘Per la vista, non cambia nulla’, dice. ‘Ma è più soffice. E a me sono sempre piaciute le coccole’. Si lamenta. Dice che il sole gli ‘restringe la pelle’. Cerco di convincerlo che il sole non ha mai avuto effetti simili, ma lui non vuole sentire ragioni e resta saldo nelle sue convinzioni”.
Così succedeva cento anni fa, quando i giornalisti erano in corsa, e vivevano, cioè vedevano annusavano parlavano con i corridori, “i giganti della strada”. Londres ama soprattutto “la folla dei tenebrosi, quelli senza una casa (cioè squadra, cioè direttore sportivo, compagni, meccanico, massaggiatore, e soldi, nda) alle spalle. Ma sono tenebrosi luminosi e ciò sia detto senza piaggeria. Perché per seguire il plotone è necessario che, come si dice in gergo sportivo, facciano scintille”. Londres scintillò fino al 1932: non aveva neanche 48 anni.