Antoine Blondin (foto Getty Images) 

lettere dalla Grande Boucle

Il Tour de France secondo Antoine Blondin

Marco Pastonesi

Blondin s’innamorò del Tour, lo sposò, un matrimonio felice e fortunato, dal 1954 al 1982 saltò soltanto l’edizione del 1958, dunque seguì 28 edizioni e 533 tappe e in tutto scrisse 524 pezzi colti eppure giocosi, romantici eppure realistici, in cui poesia e cronaca pedalano in armonia e in tandem

Il suo primo Tour nel 1954. Solo quattro tappe, nel Sud-Ovest. E il Tour lo incantò. Trentadue anni, figlio di un poeta e di una correttrice di bozze, Antoine Blondin aveva già pubblicato “L’Europe buissonnière” (La Table Ronde, 1949) e “Les Enfants du bon Dieu” (La Table Ronde, 1952). Era stata “L’Equipe” a inviarlo alla corsa. E il suo stupore lo rivelò fin dal primo pezzo: “Mi sembrava di realizzare, finalmente, i sogni dello zuccone che ero al tempo in cui i migliori della mia classe vincevano, attraverso dei concorsi piuttosto repellenti, il diritto prestigioso di seguire i ‘giganti della strada’ per una tappa o due”. E come sottolineano Mustapha Kessous e Clément Lacombe in “Le 100 storie del Tour de France” (Gremese, 2013), “lui che ha visto tante volte passare i corridori dal bordo della strada, ha trovato un solo difetto nella sua giornata a bordo di un’auto al seguito: ‘Posso ben dirlo, il mio solo rimpianto è di non essermi visto passare’”.

Blondin s’innamorò del Tour, lo sposò, un matrimonio felice e fortunato, dal 1954 al 1982 saltò soltanto l’edizione del 1958, dunque seguì 28 edizioni e 533 tappe e in tutto scrisse 524 pezzi colti eppure giocosi, romantici eppure realistici, in cui poesia e cronaca pedalano in armonia e in tandem. Poteva permettersi – un po’ come Gianni Brera da noi – di soprannominare Eddy Merckx “Mao giallo”, celebrare “l’arte di essere arrampicatore” alla maniera di Victor Hugo, esaltare “le belle danze del 14 luglio”, denigrare la “vox popoulidor” dei sostenitori di Raymond Poulidor. E in una giornata di stanca scrisse: “Si può dunque dormire tranquilli. E, Dio mio, è un male? Alla sua grande epoca, il saggio Antonin Magne diceva che il Tour de France si vince dormendo il più possibile. Da allora in poi dobbiamo credere che i cento ragazzi che si dirigevano verso Tolosa dovessero essere spinti da un’ambizione divorante perché, quando esclamarono: oggi russa, presero con estrema precisione l’espressione in fondo alla lettera, completando il quadro percorso notevolmente in ritardo rispetto all’orario previsto”.

Alla domanda “qual è la vostra occupazione preferita?”, Marcel Proust rispose “amare”, François Mauriac “sognare” e Blondin “seguire il Tour de France”. “Il Tour de France – spiega in “Sur le Tour de France” (La Table Ronde, l’edizione più recente nel 2016) – è un evento di superficie che affonda le sue radici nelle grandi profondità. Celebra l’armonia dello spazio con la durata. Esamina la geografia, ma è la sua storia a trascinarlo. Così la grandezza di ciascuna edizione contiene la memoria di quelle precedenti. Che lo si voglia o no, questa corsa ciclistica avrà generato un modo di cultura e propagato una continua corrente di affetti, un’aria di famiglia e un’aria di campagna, che respiriamo anche a nostra insaputa. Ciò che emerge è che il ciclismo, che associa gli uomini ai paesaggi, i personaggi alle strutture del suolo e del clima, ha una sua topografia leggendaria. E’ sufficiente dire che è la sede di una civiltà trasmissibile, se siamo disposti ad ammettere che si definisce come un ambiente tale che chi vi accede riceve più di quanto porta. I corridori sono eredi. I ‘suiveurs’ pure”. E anche: “Il Tour de France è la nostra torre d’avorio. Per tre settimane ci sottrae al ritmo normale del mondo. Ci requisisce gli assilli. Non conosco nessun altro ambiente o luogo nel quale ci si senta più protetti contro le aggressioni insidiose provenienti dall’esterno, salvo le toilette quando si gira la chiave”.

Blondin scopre, nel Tour, storie meravigliose. Come quella di Pierre Brambilla, un italiano nato in Svizzera e naturalizzato francese, che correva ai tempi di Bartali e Coppi: “Un campione onesto con il mento a scucchia, che concluse terzo il Tour 1947, dopo aver indossato la maglia gialla. Svolgeva il suo lavoro con una determinazione che non sempre trovava la sua ricompensa. Si picchiava durante la corsa con grandi colpi di pompa della bicicletta, si schiaffeggiava per superare le sue mancanze, si privava volontariamente delle borracce di rifornimento per punirsi di aver pedalato senza convinzione. E’ probabile che i ciclisti di questo calibro durino a lungo sulla bici. Non è stato il caso di Brambilla. Un giorno, quando i suoi tifosi andarono a trovarlo, lo trovarono intento a riempire una fossa profonda in fondo al suo giardino. In questa tomba aveva appena sepolto la sua bicicletta in posizione verticale: non si considerava più degno di correre”.

Scrittore acuto (e di successo: “Una scimmia in inverno”, Settecolori edizioni, 2022, l’originale del 1959), personaggio complesso (monarchico, conservatore capace di votare socialista), appassionato di rugby (e sempre per “L’Equipe” scrisse di sette Olimpiadi), Blondin sapeva esagerare. Una volta propose di dare un dorsale a una gallina faraona “se ci viene dietro fino a Parigi”: era la terza volta che a pranzo gli veniva servito del pollo. Un’altra volta, colto dal panico da pagina bianca, disse che avrebbe bevuto l’inchiostro di un calamaio: “Almeno così sono sicuro di pisciare l’articolo”.

 

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