ciclismo
Tour de France. L'inchino di Tadej Pogacar
A Isola 2000, la maglia gialla ha vinto anche la 19esima tappa del Tour, il tappone alpino con il Vars e la Bonnette. Sotto lo striscione d'arrivo la riverenza a questa corsa che lo condurrà nella grande storia del grande ciclismo
Era troppo anche solo sperare che gli ultimi – e ad altissima quota – chilometri di desolata magnificenza del Col de la Bonnette, 2.802 metri sul livello del mare, accogliessero la solitaria magnificenza ciclistica di Tadej Pogacar. Però, sotto sotto, ci si sperava. Perché se c’è una cosa che ci ha insegnato il ciclismo in questi ultimi anni è che sa andare oltre la logica e solleticare le nostre fantasie. E allora, un pensiero è andato a uno scatto giallo su quella montagna infinita, lungo quella strada che sembra infinita attorniata soltanto da pietre e assenza di tutto. Ancor più per il nome che quella strada porta sulle carte stradali, Route de Nice, destinazione finale anche del Tour de France.
Non è successo. Poco male. È giusto che certe fantasie rimangano tali, perché ciò che ci affascina del ciclismo è anche l’immaginazione di quello che poteva accadere e non è accaduto, il pensare a trame alternative, a lunghissime pedalate solitarie che non abbiamo visto.
Tadej Pogacar è riuscito a guadarsi la solitudine a nove chilometri e mezzo dal traguardo di Isola 2000. Davanti a lui c’erano Matteo Jorgenson, Richard Carapaz, Simon Yates, Wilko Kelderman, Jay Hindley e Cristián Rodríguez, i reduci della affollata fuga delle 13 – presto ridotta a nove a metà del Col du Vars – tutti sparpagliati in solitaria lungo l’ultima salita. Li ha ripresi tutti.
C’ha a lungo creduto Matteo Jorgenson di poter arrivare per primo sotto il traguardo di Isola 2000. La salita l’avevano presa con oltre quattro minuti di vantaggio sul gruppo della maglia gialla e il distacco non era calato troppo nonostante l’andatura di Adam Yates. E poi la strada saliva come piaceva a lui, regolare e senza pendenze eccessive. E lui pedalava a suo modo, con l’eleganza composta di un lungagnone che muove i pedali con agilità e decisione. Ci aveva sperato che Tadej Pogacar avesse fatto male i conti.
Tadej Pogacar però non aveva fatto male i conti. Si è anzi concesso quasi due chilometri di margine, ha eroso metro su metro all’americano, l’ha raggiunto e superato accelerando ancora. È diventato uomo solo al comando. Ha continuato fino all’arrivo, in un mescolarsi di sorrisi di enorme soddisfazione e sguardi alle spalle per controllare la situazione e quel lungagnone americano che continuava a guardare un po’ l’asfalto e un po’ il cielo latte sopra le Alpi.
Nemmeno oggi c’erano con lui Jonas Vingegaard e Remco Evenepoel, gli unici in grado di stargli vicino, anche se a parecchia distanza. Gli unici a riuscire a godersi per qualche minuto in più, anche se in lontananza, quello spettacolo ascensionale di forza, leggerezza e sfrontataggine che è l’andare per montagne di Tadej Pogacar. Il suo è un lungo soliloquio montano, un’ode alle vette e ai passi, qualcosa concesso solo alle telecamere per intero e agli appassionati per qualche istante. Istanti che sommati uno per uno, migliaia per migliaia è la storia di una sfida solitaria a natura e uomo, l’idea stessa del perché sotto sotto ci sediamo su un sellino e iniziamo a pedalare: per staccare da tutto, anche dai pensieri, per concederci a noi stessi nella maniera più totale e totalizzante possibile.
Tadej Pogacar ha oltrepassato la linea d’arrivo con un inchino, come fanno gli attori teatrali dopo che il sipario si è chiuso. Siamo al diciannovesimo atto di questo eccitante e solitario spettacolo. Ancora due e il sipario si chiuderà anche sul Tour de France. E saremo pronti a ricordare questo 2024, l’anno nel quale Tadej Pogacar si prese tutto quello che poteva prendersi. Anche un posto gigante nella storia del ciclismo.