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Il Foglio sportivo

Fanny che vide Owens e lo imitò vincendo tutto

Fabio Tavelli

L’atleta olandese Koen che a 30 anni e con due figli vinse 4 ori e superò anche la guerra

Di talento per lo sport i nati a Utrecht devono averne sempre avuto parecchio. Ne avremmo incrociati un paio dalle parti di Milano chiamati Marco van Basten e Wesley Sneijder. Molto prima di loro l’Università della città olandese aveva condannato la filosofia di Cartesio accusando il filosofo di ateismo. Lui che era andato appositamente in Olanda per poter avere a che fare con un modus vivendi più libero ed aperto. Cartesio diede alla sua unica figlia il nome di Francine, esattamente come fecero i coniugi Koen quando nel 1918 a Baarn, un paesino in provincia di Utrecht, seppero che sarebbe stata femmina. Francine divenne presto “Fanny” e di questa bimbetta tutto si poteva dire tranne che non fosse appassionata di sport. Al punto che praticando contemporaneamente tennis, nuoto, ginnastica, pattinaggio su ghiaccio e corsa qualcuno le cominciò a segnalare che tutta questa polivalenza poteva certamente darle benefici in salute e armonico sviluppo del corpo, ma che se avesse voluto eccellere avrebbe dovuto operare una scelta.  

Gli istruttori federali le costruirono un percorso verso discipline meno attenzionate dalle altre in modo da aiutarla a trovare meno ostacoli e vestire già a 18 anni la maglia della nazionale arancione alle Olimpiadi di Berlino del 1936.

Saltava in lungo e correva forte, Fanny Koen. In finale del lungo arrivò sesta mentre nella staffetta 4x100 le olandesi si piazzarono quinte. Una medaglia però Fanny volle prendersela sotto forma di autografo. Lo chiese, e ottenne, da Jesse Owens. Quattro medaglie d’oro per il castigatore del Führer e una ispirazione forte per Fanny. Che promise a sé stessa che sarebbe tornata alle Olimpiadi e che avrebbe provato a fare come il grande Jesse. Già, quattro anni di attesa non sono poi così tanti. Da 18 anni a 22 per arrivare a Helsinki 1940 nel pieno della maturità agonistica. Nel frattempo, erano anche arrivati i primi successi internazionali come il record del mondo sulle 100 yards e il bronzo agli Europei di Vienna nei 100 metri. Insomma, Fanny stava diventando quello che i suoi allenatori immaginavano. Ovvero una campionessa. Peccato che quel signore, si fa per dire, con i baffetti in tribuna a Berlino avesse una visione del mondo un po’ troppo estrema. Il 2 maggio del 1940 i Giochi di Helsinki furono ufficialmente annullati.  La Seconda Guerra Mondiale mise a tal punto il mondo in ginocchio che i Giochi del 1944 nemmeno furono immaginati. Bisognava attendere ancora, almeno altri 4 anni. Nel 1948, finalmente, il mondo avrebbe fatto pace con sé stesso e nessuna città meglio di Londra, quella Londra che Hitler avrebbe voluto, per fortuna non riuscendoci, radere al suolo, rappresentava al meglio il desiderio di rinascita.  Facendo due conti Fanny era nata nel 1918, anno delle fine della Grande Guerra, e a Londra 1948 sarebbe arrivata trentenne. Dobbiamo immaginare un’atleta con 30 anni di vita a fine anni ’40. Oggi ci verrebbe quasi da ridere a considerare un/una trentenne non più in grado di reggere una competizione internazionale. Ma in quegli anni l’orologio biologico dell’essere umano aveva rintocchi un po’ diversi da quelli di oggi. Per tacer del beneficio che le tecniche di allenamento, alimentazione e fisioterapia hanno potuto offrire alle prestazioni sportive. 

Nel frattempo, la vita di Fanny si era arricchita. Intanto di un marito, il suo allenatore Jan Blankers. I due si erano sposati nel 1940 quando lei aveva 20 anni e lui “già” 34. Ed anche lì spiegare in giro che 14 anni non sono poi molti non fu impresa indolore. Poi arrivò il primo figlio, Jan jr. Al quale si sarebbe poi unita, per par condicio, Fanny jr. Stiamo parlando di una mamma trentenne con due figli. Per i benpensanti del tempo una figura assolutamente incompatibile con quella dell’atleta olimpica. Che se ne stia a fare la casalinga, sussurrò più di qualcuno badando bene a non farsi intercettare. Perché già allora le donne che praticavano sport a livello agonistico erano viste non esattamente in modo esemplare. Se oltre che donna questa signora era anche madre, non di uno ma di due figli!, allora stiamo parlando di qualcosa di fuori dal normale. Come tutti gli o le olandesi all’appellativo di “mammina” o “casalinga” si aggiunse per definizione quello di “volante”. 
Se siete olandesi e fate qualcosa di significativo siete immediatamente degli “olandesi volanti”, senza possibilità di sfuggire all’aggettivazione. Secondo la vulgata l’Olandese Volante non era però un essere umano. Si trattava di un vascello fantasma che solcava i mari senza una meta precisa e con un destino beffardo che gli impediva di tornare a terra. Nessuno sa davvero da dove derivi questa immagine forse frutto di qualche drink di troppo in qualche angiporto di Rotterdam. In ogni caso di “flying dutchman” hanno a vario titolo argomentato anche Richard Wagner ed Edgar Allan Poe. 
La mammina Fanny, ovviamente volante, dopo essersi allenata sulle spiagge del mare del Nord era pronta per tornare in pista. Nel 1946 a Oslo Fanny ha partorito la seconda creatura da sole sei settimane ed è già in grado di vincere l’oro negli 80 ostacoli e nella staffetta 4x100. 
A Londra è una delle atlete più attese. Arriva ai Giochi del 1948 come detentrice del record del mondo in sei specialità: salto in lungo, salto in alto, 80 ad ostacoli, 100 e 200 metri, staffetta 4x100. Stiamo parlando di un fenomeno, con Jan jr e Fanny jr a casa a domandarsi dove diavolo fosse mamma. Se lo domandavano anche alcuni, li chiameremmo oggi “opinionisti”, che su non pochi giornali vergavano editoriali in punta di penna domandandosi, senza dare una risposta che però le loro righe ingeneravano nella testa del lettore, se fosse il caso che una donna di 30 anni, 30 anni!, con due figli fosse all’estero a gareggiare invece che occuparsi di stendere il bucato e tirar su “comediocomanda” i marmocchi. Niente da fare, Fanny (e ovviamente il marito Jan) sono ai Giochi per fare la storia. In quei giorni a Londra piove sempre, anche se questa non è oggettivamente una notizia. 

La pista è in normalissima terra battuta e tra una pozzanghera e l’altra sembra di essere su una versione albionica della spiaggia sulla quale Fanny tante volte si è allenata non lontana da casa. Il 2 agosto arriva il primo oro nei 100 metri. Il giorno successivo disputa semifinale e finale negli 80 metri ad ostacoli. In entrambe le gare demolisce il record olimpico. Ma la finale è un giallo da thrilling. Fanny e l’inglese Maureen Gardner arrivano insieme sul filo di lana. La tecnologia del tempo non è in grado di stabilire immediatamente chi delle due fosse passata per prima. Parliamo di millimetri e di un’atleta di casa che potrebbe, anche le Olimpiadi non sono immuni dalla faziosità dei giudici per gli atleti di casa, essere agevolata. Fanny e Maureen attendono secondi che sembrano ore. Ad un certo punto dall’altoparlante dello stadio parte l’inno inglese. Ecco, ha vinto lei deve aver pensato Fanny mentre tutti gli inglesi presenti nello stadio si erano alzati applaudendo gaudiosi. In realtà l’inno era stato irradiato perché proprio in quel momento era entrato nello stadio Re Giorgio VI. Dopo un attimo di disperazione per Fanny, e di esultanza per Maureen, ecco che invece giustizia fu fatta. Secondo gli onesti giudici la medaglia d’oro fu assegnata all’olandese, seppure con lo stesso tempo della Gardner.

Con due ori già al collo Fanny demolisce poi tutte le avversarie nella finale dei 200 metri. Il suo distacco dalla seconda, quantificato in 7 decimi di secondo, è ancora oggi il maggior margine tra oro e argento in una gara olimpica. Con tre ori conquistati e due marmocchi a casa ce ne sarebbe abbastanza per dire arrivederci e grazie. Ed è quello che Fanny confida al marito dopo la doccia e le interviste di rito. È stanca e comprensibilmente appagata. Ma ci sono le sue tre compagne di staffetta che forse senza di lei nemmeno riuscirebbero a qualificarsi per la finale che in modo educato, ma fermo, la reclamano ai blocchi di partenza. Jan Blankers gioca un ruolo decisivo. La convince ad una “last dance” per provare a pareggiare il poker di Owens a Berlino. Fanny fa sì con il capo, credendoci il giusto. Il 6 agosto contribuisce a portare l’Olanda in finale, il 7 le tocca al solito l’ultima frazione. Dove riceve il testimone in quarta posizione su una pista di nuovo zuppa d’acqua. La sua rimonta è prepotente, come un’idrovora risucchia Australia, Canada e Danimarca e finisce ancora una volta prima a braccia alzate. 

Sono quattro medaglie d’oro tutte per lei. Chi aveva dubitato dell’opportunità di farla gareggiare si cosparge il capo di cenere e sale sull’ampio carro della vincitrice. Il paragone con Jesse Owens è fin troppo immediato. Amsterdam la attende per incoronarla a nuova eroina nazionale, una carrozza regale la porta in giro per la città con la folla che inneggia al suo cospetto come fosse una Regina. Viene proclama dalla vera Regina Juliana Cavaliere dell’Ordine di Orange-Nassau. Più prosaicamente i suoi vicini di casa le regaleranno, passata la sbornia nazional-popolare, una bicicletta nuova. Per “prendere la vita più lentamente”, fu la giusta motivazione vergata sul biglietto allegato al graditissimo omaggio.