Il Foglio sportivo
Le Marche, un mondo sportivo al contrario
Nella regione dove gli sport olimpici hanno soppiantato il calcio in crisi. La particolarità della cultura sportiva marchigiana contemporanea risiede in questo: al massimo del nanismo calcistico e del suo costante declinare agonistico si affianca il massimo della grandezza e della potenza olimpica. Città emblematica del fenomeno: Ancona
Viaggiare nell’Italia dello sport è un esercizio della mente, più che una semplice collezione di cartoline e fotografie. Stavolta il nostro percorso fa scalo nelle Marche, vero e poco indagato laboratorio sportivo (e non solo) del nostro paese, quantomai utile per interrogarci sui lineamenti e i caratteri della cultura sportiva italiana. Qui, tra infinite colline che digradano dolcemente nel mare, troviamo infatti espresso nella sua forma pura ed elementare lo scontro tra i due grandi archetipi dell’Italia sportiva: quello calcistico, e quello degli sport olimpici. Da sempre due Italie opposte e diverse, anche in senso antropologico, con la prima che domina per soldi e attenzioni la seconda, nonostante una schiacciante inferiorità in termini di successi e competitività internazionale. Nelle Marche la situazione si rovescia, ed è questo lo straordinario che ci interessa. La particolarità della cultura sportiva marchigiana contemporanea risiede in questo: al massimo del nanismo calcistico e del suo costante declinare agonistico si affianca il massimo della grandezza e della potenza olimpica. Il terreno di scontro simbolico e pratico di queste forme è, come vedremo meglio, Ancona.
Partiamo dal calcio. Se prendiamo come riferimento temporale l’ultimo ventennio, le Marche assomigliano a una grande Spoon River contabile. Ogni città un fallimento, in alcune città fallimenti plurimi, in un andirivieni ormai rituale fatto di ripartenze dalle categorie minori. Questa sorte è appena toccata all’Ancona e al Fano, ha per lunghe settimane vacillato l’Ascoli retrocesso dalla Serie B, negli scorsi anni sono fallite, e poi sempre ripartite, Sambenedettese (più volte), Maceratese (più volte), Civitanovese, Fermana, Vis Pesaro. Potrebbe sembrare una vicenda marginale, come in fondo lo sono le Marche nello scacchiere italiano, ma a ben vedere non è così. Questo destino, al contrario, esprime una verità storica. Se il calcio italiano è da un quindicennio periferia delle grandi potenze anglo-iberiche, la dorsale adriatica è periferia di quello italiano.
Le Marche, terra d’imprenditorialità diffusa e in alcuni casi visionaria, non possono fare imprenditoria del calcio perché un mercato dell’attenzione calcistica onnicomprensivo non c’è, non esiste, e non esisterà in futuro. C’è una nuova rivoluzione in atto, e non calcolarne da subito gli effetti è miope, per quanto doloroso. I club legati alle partecipazioni nelle coppe europee sopravviveranno economicamente (lì stanno migrando in massa gli investimenti televisivi e commerciali), e saranno sempre più organizzati in modalità sloaniana, dall’Alfred Sloan grande fondatore della scienza manageriale. Per gli altri sarà guerra tra poveri per la sopravvivenza, in cui boccheggeranno quasi unicamente i meno poveri legati alla presenza-salvagente di grandi imprese sul territorio disposte a investire a fondo perduto nel calcio, in una logica di responsabilità sociale. C’è infatti una buona corrispondenza tra l’Italia del “quinto capitalismo” che sul Foglio ha analizzato di recente il marchigianissimo Stefano Cingolani e l’Italia di diversi club virtuosi della Serie B e della Lega Pro. Da questa prospettiva in chiave marchigiana sarà interessante seguire nei prossimi anni l’ingresso nel calcio della Lube pubblicamente annunciato nelle scorse settimane, per ora con un taglio molto locale, ma con una progettualità mossa da sicure ambizioni.
Però nel caso marchigiano questo episodio non basta ad arginare il declassamento calcistico, che corrisponde a quello economico. Senza dimenticare poi che il calcio di mezzo è quasi sempre in opposizione radicale alle tecniche calcolatorie del razionalismo manageriale, perché totalmente arrischiato, continuamente esposto al caso delle promozioni e delle retrocessioni, e ai loro ferali effetti contabili. L’alternativa in un’ottica di sostenibilità significa ridimensionamento delle ambizioni, o ridestinazione delle risorse. È davvero utopia pensare alle Marche come bacino di solo calcio giovanile, opportunamente sviluppato in maniera iper-professionale per coltivare talenti, dato anche il fortissimo radicamento associativo del calcio nella regione? Nell’Italia del tribalismo dei campanili – e nessuna regione italiana è più tribale delle Marche – appare come esercizio improbo, mentre il ciclo di morte e rinascita da cui siamo partiti la strada più probabile.
Infine, c’è la futurologia geopolitica interna. Le Marche nell’ultimo decennio di crisi sono state silenziosamente inglobate nella sfera d’influenza di Bologna, periferia estrema della proiezione emiliana. Il vero aeroporto dei marchigiani è il Marconi, la quarta università per studenti marchigiani iscritti è Unibo (superando Camerino), il principale attore bancario della regione, che ha ereditato i resti della fallita Banca Marche, risiede nella via Emilia e ha in Unipol un azionista-chiave. Sarà in futuro il Dallara lo stadio principale dei marchigiani? Oggi può sembrare una fantasia, domani chissà, potrebbe essere strategia di marketing per un Bologna stabilmente in Europa e desideroso di ampliare la propria fanbase, a oggi sostanzialmente ristretta alle mura cittadine.
La scena muta radicalmente se ci volgiamo al lato olimpico dello sport. Il 30 per cento dei portabandiera azzurri dal 1996 è marchigiano, una percentuale monstre in rapporto all’esile peso demografico della regione. L’Ancona fallita sui campi di calcio diventa l’Ancona in cui dimora una delle grandi icone dello sport italiano del XXI secolo, quel Gianmarco Tamberi che è restato sempre a vivere in città, fabbricandosi in loco le competenze tecniche a supporto delle sue imprese sportive, in una vita di simbiosi con gli impianti sportivi cittadini, in particolare il Palaindoor. Se del marchigiano è caratteristica precipua la ritrosia, Tamberi è da questo punto di vista dissonanza pura, animalità da palcoscenico, estrosità spesso divisiva. Tamberi è anche e soprattutto figura che corrisponde ai pensieri sportivi del grande filosofo tedesco Peter Sloterdijk, che vede negli atleti degli equilibristi sempre volteggianti su un filo costantemente teso verso l’impossibile, ardentemente desiderosi di trascendimento, di oltrepassamento di sé, di aldilà. Tamberi è anche l’asceta-martire, però non monaco bensì personaggio iper-mediatico, in una capacità anfibia di destreggiarsi in maniera disinvolta tra vita provinciale e jet-set che nei grandi marchigiani ne fa l’erede di Diego Della Valle.
Il demone olimpico pronto a contagiare Ancona e le Marche non è per niente casuale. C’è un legame spirituale tra Ancona e Olimpia, non solo per le origini greche della città appunto detta dorica. Cos’è nella storia della civiltà europea l’amore decoubertiniano per i resti dissepolti a Olimpia e per la loro resurrezione avvenuta nel 1881, fatto capitale per lo sviluppo del suo progetto, se non la tappa conclusiva di quell’amore per la riscoperta-resurrezione dei resti archeologici della grecità antica inaugurato nella prima metà del Quattrocento da Ciriaco Pizzecolli, maggiormente noto come Ciriaco d’Ancona?
Ancona a Parigi spera anche nella scherma con Tommaso Marini, allevato nella “nemica” Jesi, che nel medagliere olimpico potrebbe figurare da sola, un po’ come Stanford. Allargando la visuale, le Marche tutte sperano con Sofia Raffaeli, nata a Chiaravalle ma cresciuta agonisticamente a Fabriano, Detroit italiana dove la ginnastica ritmica è divenuta negli ultimi anni collante del tessuto comunitario e riferimento nazionale. Un vitalismo olimpico che ha una sua ragione, che promana quasi per sviluppo naturale da quell’Italia delle piccole imprese familiari che nelle Marche trova una delle sue terre più fertili, in cui il votarsi al proprio progetto in maniera esistenziale e totalizzante è misura di tutte le cose, lavoro affine a quello del produrre campioni. Questa la maggior giustizia dello sport olimpico, e al contrario la somma ingiustizia del calcio: si può diventare i più grandi anche poggiando sul piccolo.