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Due regni e un pallone. Dove va la monarchia spagnola

Maria Pia Farinella

La vittoria a Euro 2024, re Felipe e Juan Carlos, che abdicava dieci anni fa. Trame familiari 

Un regno e una partita. Anzi, dieci anni di regno di Felipe VI, proclamato re di Spagna nel giugno 2014, e il campionato di calcio Euro 2024, che ha incoronato la nazionale spagnola, il capitano Álvaro Morata, Dani Carvajal e gli altri Reyes de Europa. Bisognava vedere a Madrid la fiesta, già la notte del 14 luglio e il giorno dopo, al ritorno dei campioni da Berlino. Un bagno di folla mai visto attorno alla Fuente de Cibeles, luogo deputato per queste occasioni. E poi per il Paseo del Prado, per Recoletos, per la Calle de Alcalá fino alla Puerta del Sol e oltre. Una marea umana che ondeggiava in un tripudio di rosso e di giallo, i colori della Spagna. Quando Morata ha esortato la folla “a tenere sempre a mente che siamo il miglior paese al mondo”, l’entusiasmo ha raggiunto l’apice: fumogeni, balli, cori, ma soprattutto bandiere al vento e inni nazionali. Un colpo d’occhio a Plaza de Colón dove già sventola la più grande bandiera di Spagna al mondo, quasi 300 metri quadrati di Rojigualda, come qui chiamano l’insegna dello stato così come definita dalla Costituzione del 1978. 


Anche se si trattasse soltanto di orgoglio collettivo per il talento calcistico della Spagna, Felipe VI non poteva trovare migliore alleato per dare visibilità all’anniversario del regno. Un’implicita conferma del suo ruolo di garante dell’unità del paese e dei valori costituzionali. Il tifo per la squadra campione d’Europa ha raggiunto ogni luogo della nazione, anche il più sperduto, anche nelle regioni più autonomiste e/o indipendentiste. E’ proprio vero che lo sport unisce i popoli. O che “non esiste nel paese una vera alternativa alla monarchia, nonostante il clima di disinformazione, sfiducia nelle istituzioni e disincanto nella politica che riguarda soprattutto le giovani generazioni”, come afferma un’inchiesta appena pubblicata a Madrid da Remco, Rete di studi sulle monarchie costituzionali. 

Non è un caso che la vittoria della Spagna al campionato europeo – glorificata anche in America latina e non solo – non sia piaciuta ad Arnaldo Otegi, ex membro dell’Eta, il gruppo terroristico basco, oggi coordinatore di Bildu, coalizione di partiti per l’indipendenza del País Vasco, socia dell’attuale governo Sánchez. Otegi ha dichiarato: “Non posso gioire se vince la Spagna. Non è la mia squadra, non è il mio inno, non è il mio re”. Ardito. Di certo impopolare nel contesto. 

 

Non è un caso che la vittoria non sia piaciuta ad Arnaldo Otegi, oggi coordinatore di Bildu, coalizione per l’indipendenza del País Vasco


Se è vero che una nazionale può essere lo specchio del paese di cui porta la maglia, è pure vero che può essere anche lo specchio della sua forma di governo. Il caso vuole che a incrociare il pallone allo Stadio Olimpico di Berlino siano state le squadre di due monarchie costituzionali, forse quelle di più antico prestigio in Europa. Per l’occasione sugli spalti c’erano il re di Spagna Felipe VI, accompagnato dalla figlia minore Sofia, e l’erede al trono d’Inghilterra, William, accompagnato dal figlio maggiore George.  
In Spagna c’è da sempre un conto aperto con gli inglesi. La rivalità tra i due regni – che furono i più estesi al mondo, da occidente a oriente, passando per le Americhe – deve risalire almeno al Siglo de Oro, all’età della Controriforma di cui fu paladino l’allora re di Spagna Felipe II, alle incursioni corsare di Sir Francis Drake, alla sconfitta subita nelle acque della Manica dall’Invincibile Armada, chiamata Felicísima Armada dagli spagnoli. La storia, si sa, è maestra di ossimori.


A Berlino Felipe e l’infanta Sofia hanno aspettato il fischio finale dell’arbitro per scendere in campo ed esultare assieme ai giocatori della nazionale spagnola. Come non ricordare Sandro Pertini, il presidente italiano più amato di sempre, che ebbi l’occasione di incontrare per la prima volta allo stadio Bernabeu di Madrid, proprio durante la finale – mitica – dei mondiali di calcio del 1982. Non riusciva a stare fermo, Pertini. Era uno spettacolo nello spettacolo. Si alzava in piedi euforico a ogni azione degli italiani. Sembrava quasi sovrastare l’altissimo Juan Carlos I che gli era seduto accanto. Pertini stravedeva per lui.

 

La Roja, dunque, ha battuto l’Inghilterra. La coincidenza rimanda a modi di dire in uso a Madrid per definire la famiglia reale e il suo stile di vita. Qui dicono che la monarchia spagnola si incontra a pie de calle, cioè per strada, nei ristoranti, nei parchi. No es muy de balcón, a diferencia de la inglesa. Il confronto serve a marcare la differenza tra i Borbone che non amano esporsi dall’alto, e i Windsor, cioè “la ditta” come dicono gli inglesi, per i quali ogni atto ufficiale è accompagnato dalla massima spettacolarizzazione e dal numero massimo di merchandise in tema.

 

Un confronto che marca la differenza tra i Borbone, che non amano esporsi dai balconi, e i Windsor, che massimizzano lo spettacolo


La tesi sembra futile. Ma i giornali, nelle cronache sui dieci anni del regno di Felipe VI, si sono impegnati nel riportare con esattezza il numero delle volte in cui un re di Spagna si è affacciato dalla Sala del Trono del Palazzo d’Oriente, la più grande residenza reale d’Europa. Si inizia a contare dal 1975, con il ritorno della Corona in Spagna, quando Juan Carlos di Borbone venne proclamato re dopo la morte del Caudillo Francisco Franco avvenuta il 20 novembre di quell’anno. E con lui del franchismo, la dittatura più longeva in occidente nel XX secolo. Dittatura militare, si intende. O dictadura mineral, cioè immutabile, pietrificata, come precisava Tierno Galván, cattedratico cacciato dalle università spagnole per avere appoggiato le rivendicazioni studentesche del 1965 e primo sindaco eletto a Madrid nel postfranchismo.


Dal balcone del Palazzo Reale il 27 novembre del 1975 salutò la folla Juan Carlos I, proclamato re e non incoronato, come si usa in Castiglia dai tempi della cattolicissima Isabel. La quale, unendosi in matrimonio nel 1469 con Fernando d’Aragona unificò de facto il paese. Dopo quattro anni di guerra civile. Per non sfatare la leggenda nera del cainismo, la competizione tra fratelli fino alla morte, che molti anni dopo Unamuno avrebbe definito come tratto distintivo del carattere degli spagnoli. 


La seconda volta di Juan Carlos I al balcone della Sala del Trono fu nel 1982, in occasione della visita di Papa Giovanni Paolo II. La terza, per le nozze dell’allora erede al trono Felipe con la giornalista (ormai ex) Letizia Ortiz nel maggio 2004. 

 

Dieci anni dopo, nel giugno 2014, il balcone venne aperto per il saluto di Felipe VI, proclamato re in seguito all’abdicazione, drammatica per le istituzioni e per il paese, di suo padre Juan Carlos, travolto da ogni tipo di scandalo. Da allora è chiamato semplicemente el Emérito. “Tanto qui c’è solo lui”, dicono in Spagna. E ricordano che un anno prima, nel 2013, abdicarono in Europa tre monarchi: Papa Ratzinger, Beatrice d’Olanda e Alberto del Belgio. Una cornice narrativa utile a fare digerire al paese la rinuncia al trono di Juan Carlos nel momento più basso della popolarità della monarchia. E per legiferare ad hoc sull’abdicazione reale, non prevista dalla Costituzione del ‘78. E non ripetibile. Se Felipe VI volesse o dovesse abdicare, bisognerebbe promulgare una nuova legge.

 

Il mese scorso il balcone della Sala del Trono è stato usato di nuovo per l’anniversario del regno di Felipe VI. Secondo sondaggi non ufficiali, perché la casa reale non li permette, il re ha risalito la china della popolarità infranta dal padre. Durante la cerimonia al Palazzo Reale ha enunciato la sua formula in tre parole di uso quotidiano: “Servizio, impegno e dovere”. Aggiungendo di aver tenuto a mente quanto promesso nel giorno della proclamazione, dieci anni fa. Con spirito di servizio, “perché la Corona si deve alla società spagnola”, con l’impegno e il senso del dovere di un capo di stato che regna ma non governa e rappresenta l’unità del paese “al di là del costo in termini personali”. La foto al balcone inquadra una famiglia reale ridotta all’osso: il re, la regina consorte, la figlia maggiore Leonor che è principessa delle Asturie ed erede al trono, sua sorella minore Sofia. Perché Felipe ha scelto di restringere i ranghi e ridimensionare gli incarichi dei componenti. Ovviamente mancava el Emérito. Che ormai vive in esilio. Va e viene dalla Spagna. Talvolta in incognito, dicono. Ma il suo retiro, non si sa se imposto o gradito, è tra le sabbie di un’isoletta super esclusiva nel Golfo Persico, dalle parti di Abu Dhabi.

 

Secondo sondaggi non ufficiali – la casa reale non li permette – il re ha risalito la china della popolarità infranta dal padre, travolto dagli scandali

 
Cinque volte al balcone in quasi cinquant’anni sono una misura accettabile in Spagna. Meno feste, meno spese. Il fatto è che la Corona ha bisogno di far dimenticare l’èra di Juan Carlos. Almeno per la parte che riguarda gli scandali. La sfrenata avidità. Anche di donne. Di sesso e soldi. E pure il sangue del povero elefante abbattuto in Botswana nel 2012 durante un costoso safari finanziato da chissà chi. Juan Carlos ebbe un incidente, si fratturò l’anca e dovette tornare in Spagna. Vennero fuori molti altarini coperti da un tacito pacto del silencio. Tutti sapevano, ma si erano voltati dall’altra parte. Spuntarono figli illegittimi, mai riconosciuti. Tra le mille donne, forse di più, c’era anche la favorita del re, Corinna Larsen, di cui Juan Carlos era tanto incapricciato (in spagnolo si usa una parola più forte, ma intraducibile: encoñado) da portarsela a casa e farla vivere lì, nelle proprietà della Zarzuela, da sempre residenza della famiglia reale. Tanto era encoñado Juan Carlos di Corinna che, quando le foto con lei in Botswana fecero il giro del mondo, ebbe a dire: “Preferisco Corinna alla Corona”. Non tenendo in conto che Corinna probabilmente non sapeva che farsene di un re senza corona.
Sesso e denaro a fiumi. Fondi segreti e casi di corruzione, malversazione, frode fiscale, appropriazione indebita hanno toccato da vicino la figura del re. A cominciare dal 2011, quando Iñaki Urdangarin, allora marito dell’infanta Cristina, sorella maggiore di Felipe VI, fu accusato di aver dirottato verso società paravento fondi pubblici versati a un’organizzazione no profit di cui era presidente. Processato, fu condannato a più di sei anni di carcere. 

 
L’affaire Urdangarin fu l’inizio della fine del regno di Juan Carlos. Che pure era stato un protagonista indiscusso della storia del XX secolo. Il re che aveva traghettato la Spagna verso la modernità e il prestigio internazionale dopo gli anni cupi del franchismo. Il re che aveva riconsegnato il paese alla democrazia e all’Europa. “Il miglior ambasciatore che la Spagna abbia mai avuto. A lui si deve il successo all’estero della grande impresa spagnola. Comunicativo, intuitivo, straordinario mediatore, Juan Carlos è stato l’uomo giusto al posto giusto nel momento in cui la Spagna aveva bisogno di lui”, dice il giornalista Alfredo Urdaci che fu responsabile dei servizi informativi della Tve, la televisione spagnola. Il direttore che assunse Letizia Ortiz nel 2000 e che nel 2003 lavorò con lei fianco a fianco alla conduzione di un telegiornale della sera, prima che diventasse di pubblico dominio la sua relazione col principe Felipe. 

 

Urdaci paragona Juan Carlos a Falstaff, personaggio de Le allegre comari di Windsor di Shakespeare. Un cavaliere debordante e un po’ spaccone che riesce a trovare sempre espedienti per evitare brutte figure. Tranne che a lungo andare si espone al discredito proprio a causa dei suoi eccessi. Altri hanno paragonato l’Emerito a un picaro, archetipo della letteratura del Siglo de oro spagnolo, non a caso contemporanea al teatro elisabettiano inglese.

 
Una personalità complessa e controversa, comunque, questo re di Spagna. Il primo dopo l’interruzione della Seconda Repubblica del 1931, la successiva Guerra civile terminata nel 1939 e i quarant’anni di dittatura fino alla morte nel 1975 del Caudillo, vinto dalla vecchiaia e solo da quella. 


Un uomo, Juan Carlos, due volte nella polvere e due volte sugli altari. Nella polvere adesso per gli scandali. Che hanno costretto Felipe a rinunciare all’eredità del padre e a togliergli il vitalizio stanziato per lui dai fondi della casa reale. E nella polvere, Juan Carlos, anche all’inizio della sua vita pubblica nel 1969, quando accettò di essere il successore di Franco “col titolo di re” e si prestò a giurare sui principi del Movimiento Nacional, cioè della Falange. 


Sugli altari per avere favorito la rapida Transizione. Che con l’approvazione della Costituzione del 1978 ha trasformato la Spagna in una monarchia parlamentare. Sugli altari, ancora, per aver salvato l’ancora fragile democrazia di Spagna il 23 febbraio 1981, durante il tentativo di golpe del colonnello Tejero. Con le Cortes tenute in ostaggio, armi in pugno, e i carri armati già per strada a Valencia. All’una di notte Juan Carlos apparve in televisione con la divisa di comandante in capo delle Forze armate e bloccò i golpisti. Era l’unico che poteva farlo. Anche se uno scrittore come Javier Cercas nel libro Anatomía de un instante del 2009 scrive che “non bisogna santificare il re per il comportamento tenuto durante il golpe. Anche i re commettono errori”. Al riguardo Alfredo Urdaci, che ha intervistato a lungo Tejero, dice: “Il tentato golpe si presta a molte letture. Juan Carlos? E’ sempre stato un gran giocatore”.

La parabola di Juan Carlos, la sua ascesa e la sua rovinosa caduta hanno prodotto libri, saggi storici, biografie romanzate soprattutto quest’anno per i dieci anni della sua abdicazione. “Non sono neppure tanti”, sostiene Ignacio Casares, che ha sempre lavorato per la prestigiosa Editorial La Fàbrica. “In realtà una specie di manto protettore avvolge la monarchia. Per preservarla”, dice. Fa riferimento “alla più che riservata rete di monarchici che ha sempre sostenuto, anche economicamente, i Borbone. Pure durante l’esilio di Don Juan, conte di Barcellona e legittimo pretendente al trono di Spagna che, invece, per volontà di Francisco Franco, finì a suo figlio Juan Carlos”.
In primo piano in libreria ci sono solo i volumi del giornalista Jaime Peñafiel sui presunti tradimenti della regina consorte Letizia. Il marito non ha mai fatto una piega. Never explain, never complain. Anzi. Anche durante la cerimonia per i dieci anni del regno, Felipe VI, che da Letizia ha appreso l’arte del comunicare e dell’apparire spontaneo ove possibile, ha elogiato pubblicamente “il grande appoggio della regina e la sua sensibilità”. In realtà il comportamento di Letizia non influisce sui destini della dinastia. Lo sanno tutti. E tutti si affannano a spiegare che l’unico ruolo che compete a Letizia è quello di madre dell’erede al trono. Forse è per questo che Leonor, principessa delle Asturie, in ogni occasione ufficiale riserva piccoli gesti di tenerezza e protezione alla madre. Leonor sa bene che sua madre non appartiene alla Corona.

 

Non solo Juan Carlos: in libreria c’è il volume sui presunti tradimenti della regina consorte Letizia. Il marito non ha mai fatto una piega


Con un aneddoto Alfredo Urdaci spiega il contesto. Quando Letizia voleva trovare qualcuno che raccogliesse le sue memorie e scrivesse assieme a lei una biografia autorizzata, Felipe VI la fermò: “Noi camminiamo per la via maestra, non scendiamo mai nelle caditoie. Hanno scritto molti libri sulla nostra dinastia. Tutti dimenticati prima o poi. Eppure, noi siamo qui”.

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