Tadej Pogacar pochi minuti dopo aver tagliato il traguardo dell'ultima tappa del Tour de France 2024 (foto Epa, via Ansa)

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L'apparizione della generazione Tadej Pogacar

Giovanni Battistuzzi

Lo sloveno ha vinto anche il Tour de France dopo il Giro d'Italia. C'è chi lo ha criticato per aver stravinto. Quel che è certo è che ha riportato i ragazzi a bordo strada

Ventisei anni sono un bel po’ di tempo. Abbastanza per dimenticarsi dell’effetto che fa assistere all’improbabile, dare un dove e un quando a questo, soprattutto associarne un ricordo. Il 21 luglio del 2024 sarà, almeno per chi ha la passione del ciclismo, il giorno nel quale Tadej Pogacar ha reso reale l’improbabile, il giorno nel quale ha vinto il Tour de France poco meno di due mesi dopo aver vinto il Giro d’Italia. Ventisei anni dopo l’ultima volta: quella di Marco Pantani nel 1998. Sommare la maglia gialla a quella rosa in una sola stagione fino agli anni Quaranta del secolo scorso era ritenuto impossibile. Poi ce la fece Fausto Coppi nel 1949 e venne declassato a improbabile. Ci sono riusciti in pochissimi: Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche, Miguel Indurain, Marco Pantani. Ancora oggi in pochi ci provano, perché usurante, quasi improbo, spesso in balia di eventi incontrollabili: i corridori pedalano su bici che sono in contatto con il suolo grazie a gomme di ventotto-trenta millimetri di larghezza. 

Provare a realizzare l’improbabile è ciò che manda avanti lo sport, ciò che appassiona dello sport. È il vedere uomini e donne dalle capacità straordinarie ad appassionare migliaia di persone. Lo stesso identico motivo che ha spinto miliardi di persone a leggere e continuare a leggere le storie straordinarie, a volte al limite del verosimile, nei capolavori della letteratura. È l’allontanarsi dall’ordinarietà a rendere affascinante un atleta.

Tadej Pogacar ha vinto in modo netto: sei vittorie di tappa al Giro d’Italia, sei al Tour de France, nove minuti e cinquantasei secondi rifilati al secondo, Geraint Thomas, al Giro, sei minuti e diciassette a Jonas Vingegaard in Francia. Una dimostrazione di forza assoluta che ha indispettito più di qualcuno. C’è nulla di più antipatico nello sport di chi non ha problemi a dimostrarsi più forte degli altri in maniera plateale. Un’antipatia che si innesca sempre quando arriva il giorno nel quale l’età adulta inizia a farci considerare ciò che non è ordinario come un fastidio. È il momento nel quale si preferisce guardarci più alle spalle che avanti. E si finisce a mitizzare il passato invece che goderci il presente pensando al futuro. Senza accorgersi o ricordarci che i campioni hanno sempre vinto cercando di stravincere, provando a vincere il più possibile, perché è anche per questo che sono diventati un nome e cognome che a distanza di anni e decenni ancora viene ancora ricordato.

Tadej Pogacar ha vinto, stravinto forse. Ha fatto però qualcosa di più, qualcosa che forse quelli a cui l’età adulta ha spinto a considerare ciò che non è ordinario un fastidio, non si sono accorti. Lungo le strade del Giro e del Tour era da anni che non c’erano così tanti ragazzini. Ragazzini in maglia bianca UAE Team Emirates, ragazzini festanti che gridavano forza Tadej o allez Pogi, che urlavano ed esultavano al passaggio di quell’uomo che di rosa o di giallo vestito dava loro la soddisfazione di tenere per qualcuno, li faceva essere lì e non altrove, perché quello era l’unico posto dove valeva la pena stare. E poi c’erano altri ragazzini che inneggiavano a Jonas Vingegaard, altri che gridavano il nome di Remco Evenepoel. Mathieu van der Poel o di Wout van Aert. 

Abbiamo attraversato anni nei quali di ragazzini a bordo strada ce ne erano pochissimi. Anni nei quali sembrava necessario non vincere troppo, essere morigerati nella quantità di vittorie. Poi qualcosa è cambiato anche grazie a loro che corrono per vincere e il più possibile, perché in fondo è questo a cui si ambisce quando si corre con un numero attaccato alla schiena.

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