Il Foglio sportivo
Per l'Italia sono quasi Giochi olimpici militari
Il 71 per cento dei 403 atleti azzurri presenti a Parigi portano la divisa. Oggi non si può fare a meno dei gruppi sportivi militari, ma non bisogna scordare neppure le 140mila società in giro per l’Italia da cui parte la voglia di fare sport
Sembrano Giochi militari. A guardare bene sotto le maglie dei nostri atleti olimpici si intravede quasi sempre una divisa. Lo raccontano i dati degli ultimi anni. Il numero degli Azzurri che fanno parte di un gruppo sportivo militare è in costante aumento. A Tokyo, tre anni fa erano il 70 per cento, a Pechino, nell’ultima edizione dei Giochi invernali erano addirittura l’86 per cento. Sono percentuali importanti, risultati che farebbero la gioia di qualsiasi statistico perché indicano una rotta precisa. Mancano sette giorni all’appuntamento olimpico di Parigi e meno di due anni da quello di Milano-Cortina e la tendenza è chiara. Lo sport italiano deve ringraziare i Corpi militari perché senza le stellette e i conseguenti ingaggi la vita dei nostri sportivi, oggi anche quelli impegnati alle paralimpiadi, sarebbe molto più complicata e per alcuni sport praticamente impossibile. Un tema caro anche al ministro Giorgio Mulé, primo firmatario dell'emendamento approvato nei giorni scorsi in commissione Cultura e Sport della Camera, per l'adeguata rappresentanza nei sistemi federali. “Da sottosegretario alla Difesa con la delega sui gruppi sportivi militari, nel 2021 mi accorsi che non avevano rappresentanza in giunta e consiglio Coni. I gruppi sportivi militari valgono il 40 per cento delle medaglie che il Coni porta a casa, ma non hanno voce né rappresentanza”, ha dichiarato nei giorni scorsi a La Gazzetta dello Sport: “La Legge è finita ormai da 3-4 mesi, tutto l’accordo è stato trovato”, ha spiegato Mulé. “A questa legge mancano 34mila euro, che è la condizione per la quale devono essere pagati per legge i rappresentanti. Questi 34mila euro non si trovano. Rifaccio appello a Malagò, uomo tradizionalmente della mediazione”.
Alle imminenti Olimpiadi di Parigi, intanto, gli atleti di corpi sportivi militari sono 287, oltre il 71 per cento del totale di 403, lo sguardo al passato conferma che si procede nel segno della crescita. Ai Giochi estivi di Atlanta 1996, solo il 32 per cento dei 111 atleti azzurri apparteneva a un gruppo sportivo militare. A Tokyo 2020, nell’ultima edizione estiva, la percentuale è cresciuta nel numero e nelle proporzioni fino a raggiungere il 70 per cento con 268 atleti militari. I dati raccolti edizione dopo edizione confermano il trend in crescita con la sola eccezione dei Giochi brasiliani: 34 per cento a Sidney 2000, 33 ad Atene 2004, 51 a Pechino 2008, 63 a Londra 2012, 44 a Rio 2016. Anche il grafico del contributo al medagliere italiano ha un andamento non costante, ma orientato verso l’alto: se ad Atlanta (35 medaglie azzurre, sesto posto nel medagliere) dai gruppi militari era arrivato l’apporto di 19 medaglie, sulle 40 di Tokyo sono addirittura 49 i contributi di Fiamme gialle della Guardia di Finanza, riconducibili al ministero dell’Economia, Fiamme oro (Polizia di Stato) e Fiamme rosse (Vigili del Fuoco) e legate al ministero dell’Interno, Fiamme azzurre (Polizia penitenziaria) al ministero della Giustizia e quelli del comparto Difesa, riconducibili all’omonimo ministero: esercito, marina militare, aeronautica e carabinieri (con l'Arma che ora include anche l’ex Corpo forestale, una volta legato al ministero dell’Agricoltura). La discrepanza sul totale nasce dal fatto che su specialità come il quattro di coppia, ad esempio, un eventuale oro italiano potrebbe portare con sé il contributo di 2 atleti della marina, 1 dell’aeronautica e di 1 civile. Ci si basa quindi sul dato totale per raccontare con maggior chiarezza il peso specifico del contributo degli atleti militari: 22 a Sidney (34 podi totali), 19 ad Atene (su 32 poi), ben 42 a Pechino (su 27), 31 a Londra (28) e 27 a Rio (28).
Un conteggio che ha un impatto ancor più evidente nei Giochi invernali: nell’ultimo quarto di secolo si va dall’apporto di 11 medaglie con contributo dei gruppi sportivi militari a Nagano 1998 (10 podi e decimo posto nel medagliere) ai 19 di Pechino 2022 (17 podi). In mezzo, il contributo a 14 medaglie di Salt Lake 2002 (totale di 13 podi), le 15 di Torino 2006 (11) e le 14 di Pyeonchang 2018 (10). Ma anche il fatto che il 100 per cento delle medaglie di Vancouver 2010 (5) e di Sochi 2014 (8 con 14 atleti militari a podio) siano arrivate dai gruppi sportivi militari. Nei termini numerici assoluti, il 50 per cento dei 124 atleti azzurri a Nagano 1998 sono diventati l’86 dei 118 a Pechino 2022, a conferma di un apporto in evidente crescita negli anni (65 per cento a Salt Lake 2002, 47 a Torino 2006, poi addirittura 84 a Vancouver 2010, 86 a Sochi 2014 e 82 a Pyeonchang 2018). Rimettendo la calcolatrice nel cassetto, è evidente come lo sport olimpico italiano sia – innanzitutto – figlio dei gruppi sportivi militari. “Ma questo modello è inevitabile?”, si chiede Alessandro Castelli, ex aviere, già tricolore sugli 800, vicinissimo a Franco Arese in Fidal e presidente del Cus Pro Patria Milano, il Centro universitario sportivo erede di una storia iniziata nel 1883. Castelli sa di camminare come un elefante in cristalleria, mettendo in discussione lo status quo. Ed evidenziando il primo ostacolo al cambiamento: l’assenza di alternative di sostentamento economico (quello garantito dai gruppi militari) per chi deve dedicarsi a sport di alto livello. “Questo nonostante la difficoltà dei bilanci della finanza pubblica e i dubbi sulla sostenibilità del sistema. Perché se non fai risultati o non li fai più, lo stato deve darti una polizza a vita?”, si chiede. “Il modello statalista abbraccia la logica che fu delle lunghe leve militari di un tempo e della necessità di non interrompere le attività sportive degli atleti”. Ma tra l’archetipo di sovietica memoria e quello dei college statunitensi, ci potrebbero essere tante sfumature. Che puntino su meritocrazia e non su una sorta di reddito di cittadinanza sportivo. Oggi Fiamme gialle, carabinieri, esercito e gli altri gruppi coltivano anche sezioni giovanili senza arruolamento per chi non ha compiuto il 17esimo anno d’età, quello necessario per ottenerlo. Ma l’attenzione alla fase iniziale della carriera, stride con chi non gradisce che ex atleti ed ex fisioterapisti continuino ad essere a libro paga quando l’attività agonistica non la svolgono più e si rende necessario il dirottamento in altri settori. Non manca poi chi abbia obiettato che libertà e legge non siano uguali per tutti: il pretesto è stato il caso dell’agente di polizia licenziata per le cicatrici di un tatuaggio cancellato, quando altri atleti fanno sfoggio di epidermidi in stile maori. Ma tacciare queste obiezioni di antimilitarismo, porterebbe fuori strada così come sostenere l’inevitabilità della situazione, banalizzata da chi ne contesta l’approccio machista. Il tema della relativa mancanza di sbocchi per chi vuol coltivare la crescita sportiva con le spalle coperte da uno stipendio, che invece i gruppi sportivi militari offrono, non è però il solo. “Anni fa cercavo sponsor privati e agganciai un grande nome”, contestualizza Castelli. “Quando l’investitore mi chiese chi sarebbero stati i nostri competitor sui campi di gara, feci i nomi dei corpi militari dello Stato. ‘Noi non facciamo concorrenza ai militari’, fu la sua risposta. È lì che capii perché non ci sarebbero mai stati grandi investitori privati nell’atletica”. Disciplina che oggi, però, corre con i suoi atleti militari incontro a Parigi con le immagini dorate di Tokyo, della 100 metri maschile e della 4x100 sul gradino alto del podio.
Mettere in discussione un sistema che porta certi risultati può sembrare un azzardo, un rischio inutile in assenza di un’alternativa valida. Però porre il problema, sempre che lo sia, e farsi delle domande è più che lecito. Vogliamo davvero che il nostro sport dipenda quasi totalmente dai gruppi militari? Oggi non si può fare a meno dei gruppi sportivi militari, ma non bisogna scordare neppure le 140mila società in giro per l’Italia da cui parte la voglia di fare sport.