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Il Foglio sportivo

“Così si vince un'oro ai Giochi”. Intervista ad Alberto Cova

Fausto Narducci

Quarant’anni dopo l'oro nei 10.000 metri alle Olimpiadi di Los Angeles 1984: “Nulla deve essere lasciato al caso”

Non c’è niente più delle Olimpiadi a mettere in moto la memoria. Un gioco di specchi che a Parigi ci farà rivivere nell’atletica un triplo anniversario: i 40 anni dagli ori di Alberto Cova, Alessandro Andrei e Gabriella Dorio a Los Angeles ‘84 dove, guarda caso, si disputeranno le prossime Olimpiadi. Ma non c’è dubbio che il ragioniere brianzolo, classe 1958, resti uno dei simboli più riconosciuti e riconoscibili della disciplina di cui l’Italia è diventata una potenza mondiale.  

A Los Angeles lei portò in dote l’oro europeo ‘82 e quello mondiale ‘83 per conquistare un tris riuscito nella storia dei 10.000 solo a un certo Mo Farah quasi 30 anni dopo. Quale fu l’avvicinamento alla gara?

“Con il mio allenatore Rondelli non lasciammo nulla di intentato perché l’Olimpiade era il mio sogno da bambino. Durante i Mondiali di Helsinki avevamo scoperto la località di Otaniemi, perfetta per i raduni, e ci trasferimmo lì per un lungo periodo a rifinire la preparazione. Oggi si va in Africa, ma non è molto diverso. Poi a 10 giorni dalle gare, proprio mentre era in corso la cerimonia d’apertura, sbarcammo nella villetta affittata a Santa Monica per vivere l’esperienza di gruppo che era il marchio di fabbrica della Pro Patria. Oltre al tecnico e al fisioterapista Mario Ruggiu c’eravamo io, Marchei, Panetta e Boffi. Io e Marchei avevamo anche le mogli in una villetta vicina. Fu perfetto per la concentrazione: andavamo al Villaggio solo per le conferenze stampa e potevamo allenarci sulla pista di Carl Lewis, ma anche sulla ciclabile di Malibu in riva al mare. Ricordo che di fronte alla villetta stazionava un poliziotto, nel clima della guerra fredda i controlli erano costanti ma discreti”

Gli iscritti ai 10.000 erano 45, così tanti che correste le batterie il 3 agosto e la finale il 6, solo tre giorni dopo. Altra cosa impensabile oggi.

“Si oggi basta un solo turno, lì dovevi studiare bene il recupero fra i due turni. Comunque vinsi agevolmente la mia batteria mentre fu eliminato Panetta. Incredibile invece quello che successe a Salvatore Antibo, che consideravo il principale avversario per la finale. Commise l’ingenuità di indossare in batteria scarpe nuove di zecca e dopo la qualificazione si trovò i piedi piagati. Gli prestammo il nostro fisioterapista Ruggiu: arrivò comunque quarto ma non corse nelle condizioni migliori”

Prima di entrare in camera di chiamata per quella finale il primatista mondiale Fernando Mamede le fece capire che non teneva ‘cabeza’.

“Con il portoghese fu una storia infinita. Nel 1983 quando feci quello che rimane il mio personale a Losanna con 27’37”59 Mamede mi batté in volata ma gli presi le misure e ai Mondiali di Helsinki io vinsi l’oro e lui fu solo 14esimo. Insomma capii che soffriva le gare e così fu anche a Los Angeles dove addirittura si ritirò dopo aver tirato all’inizio. Invece mi trovai davanti l’altro eterno rivale Martti Vainio, alto 2,03, quindi con le gambe troppo lunghe per le volate in agilità ma che sapevo terribile sul ritmo”.

Fu infatti il suo capolavoro rimanergli attaccato quando il finlandese percorse 3 km nella seconda parte di gara in 8 minuti, un tempo buono anche per un 3.000.

“Feci una fatica tremenda, all’epoca non si vedeva tutta la gara sul maxischermo e fui sorpreso quando mi accorsi che ero rimasto da solo a tenere il suo ritmo. Nell’ultima curva capii che lui stava peggio di me e negli ultimi 120 metri feci la differenza. Il Coliseum era tutto per me”

Nella tribuna dove stazionavano gli allenatori non vide il suo allenatore Rondelli, che era rimasto confuso fra gli spettatori…

“Un episodio molti curioso. Nel giro d’onore il primo ad abbracciarmi fu il dirigente Franco Ascani che non so come mi saltò letteralmente in braccio. Poi arrivò Giorgio che aveva aggirato il servizio d’ordine ed era entrato anche lui in pista. Poco dopo la delusione di Seul ‘88 ho chiuso la carriera”.

A Parigi l’Italia non schiererà nessuno nei 5.000 e 10.000 maschili dove puntiamo sulla Battocletti. Crippa correrà invece la maratona. Come vede l’evoluzione del mezzofondo?

“In generale i tempi sono facilitati dalle piste e dalle nuove tecnologie delle scarpe, ma la considero una normale evoluzione. Dentro le scarpe c’è sempre un uomo. Anche io nel 1980 mi sono evoluto usando le scarpe Nike che in Europa erano appena arrivate. Poi nel mezzofondo prolungato c’è stata l’esplosione degli africani che hanno chiuso le porte agli europei su queste distanze. Ma non so se la maratona per Crippa sarà più aperta dei 10.000 come tempi, staremo a vedere. Punto molto su Battocletti che è un’atleta determinata”.

L’ha sorpresa la crescita dell’atletica italiana, presieduta da Stefano Mei che fu suo rivale e la precedette sul podio dei 10.000 agli Europei ‘86.

“I cinque ori di Tokyo onestamente sì, ma al di là dei meriti del presidente, ci sono tante spiegazioni: siamo stati i migliori a gestire la fase del Covid, negli otto anni precedenti ha lavorato bene Baldini e La Torre è stato bravo ad assemblare il lavoro dei tecnici che negli anni Ottanta vivevano una sana rivalità. Poi in casa azzurra funziona questa combinazione di etnie”

Lei è stato consigliere federale e parlamentare. Ora è fuori dall’atletica ma sempre in piena attività su tanti fronti.

“Con la mia nuova compagna Laura ci siamo appena trasferiti a Brescia per stare più vicino alle aziende con cui svolgo la mia attività di team building. Curo anche la crescita personale e la leadership. Non sono uno psicologo ma metto a disposizione la mia esperienza di atleta. Recentemente ho completato le sei major della maratona e continuo a correre oltre a fare il dirigente dell’Atletica Vigevano. E poi sono due volte nonno grazie alle mie figlie Elisa e Alice che hanno fatto anche atletica.

La riconoscono per strada?
“Anche se mi sono tagliato i baffi, chi ha più di 45 anni appena mi vede si ricorda l’urlo di Paolo Rosi ai Mondiali di Helsinki: Cova, Cova, Cova!”
 

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