Alice Milliat - foto Wikimedia

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La storia di Alice Milliat, nostra signora delle Olimpiadi

Paolo Valentino

Rifiutata dal Cio, nel 1922 organizzò una competizione parallela per sole atlete e rivoluzionò lo sport. Una storia da ricordare nell’anno in cui ai Giochi gareggia un numero perfettamente eguale di donne e uomini

Le delegazioni nazionali iniziarono a entrare poco dopo le 14:00 sulla pista del Pershing, l’immenso stadio costruito dai soldati americani ai bordi del Bois de Vincennes a Parigi. Era il 20 agosto 1922. Toccò per prima alla Svizzera, seguita nell’ordine da Cecoslovacchia, Inghilterra e Stati Uniti. Poi fu la volta della Francia. Sugli spalti, ventimila spettatori incuriositi applaudivano quello spettacolo inconsueto. In molti si lasciavano andare a commenti ironici. Ma quando le squadre furono disposte al centro, il silenzio cadde solenne sui gradini. Fu un attimo. Poi la banda iniziò a suonare le prime note della Marsigliese e tutto lo stadio si lanciò a cantare l’inno nazionale francese.

Cosa c’era di strano in quella manifestazione sportiva internazionale? Semplice, i 77 atleti schierati sulla pista erano tutte donne. Non era mai successo nella storia dell’atletica leggera. Alle 15:15 una signora di media statura e corporatura robusta lasciò la tribuna ufficiale e si avvicinò al bordo della pista dove l’attendeva un microfono. Aveva 38 anni, si chiamava Alice Milliat ed era già conosciuta nel mondo dello sport per aver fondato nel 1917 la Fédération des sociétés féminines sportives de France (Fsfsf). La voce le tremava un po’ quando pronunciò la frase che l’avrebbe consegnata alla Storia: “Dichiaro aperti i primi Giochi olimpici femminili del mondo”. L’evento durò un solo giorno, si svolsero 11 gare, vennero battuti numerosi record mondiali e i 27 giornalisti accreditati ne scrissero per le più importanti testate internazionali. Tutto il pianeta seppe dell’avvenimento.

Sono passati due anni e un secolo. Ma quelle parole risuonano ancora oggi. Mentre i giochi delle XXXIII Olimpiadi si aprono nella capitale francese, la figura rivoluzionaria, la visione ambiziosa e il ruolo pionieristico di Alice Milliat ottengono finalmente un tardivo ma giusto riconoscimento. Di più, centodue anni dopo la sfida da lei lanciata al Comitato olimpico internazionale, che ignorò l’evento del 1922 e rifiutò (inutilmente) a Milliat l’uso del termine Olimpiadi, Alice ha vinto la sua scommessa: quelli di Parigi 2024 sono i primi Giochi olimpici della storia dove gareggerà un numero perfettamente eguale di donne e uomini.

Non era scontato. E soprattutto non fu facile. Abbiamo raccontato nelle scorse settimane su queste pagine cosa pensasse delle donne il barone Pierre de Coubertin, l’uomo che dopo averle lanciate nel 1896 ad Atene, portò per la prima volta le Olimpiadi a Parigi esattamente un secolo fa e rese celebre il motto, sia pure non di suo conio, “l’importante non è vincere, ma partecipare”. Farle partecipare ai Giochi, così l’aristocratico francese nel 1912, “è poco pratico, non interessante, antiestetico e, non esito ad aggiungere, inopportuno”. Per lui, le Olimpiadi dovevano essere “la continua e solenne esaltazione dell’atletismo maschile con l’applauso femminile come ricompensa”. Ancora nel 1928 de Coubertin si disse “fortemente contrario all’ammissione delle donne ai Giochi”, nonostante il Cio sotto la sua presidenza ne avesse ammesso come foglia di fico un piccolo drappello (135 su oltre tremila atleti) a quelli di Parigi del 1924, confinandole rigorosamente a pochi sport, fra i quali il tennis, il nuoto e la scherma.

Ma il fondatore delle Olimpiadi moderne, morto nel 1937 e sul quale gli stessi organizzatori di Parigi 2024 hanno messo un’imbarazzata sordina, non aveva fatto i conti con Alice Milliat: “E’ soprattutto grazie a lei che le donne partecipano ai Giochi. La battaglia per la parità nell’atletica leggera l’ha iniziata Alice, battendosi contro l’idea che una donna non possa sostenere gli stessi sforzi fisici di un uomo”, dice Sophie Danger, autrice di Alice Milliat. La femme olympique, appena uscito in Francia per i tipi di Editions Les Pérégrines.

Il bel libro di Danger si accompagna a una serie di iniziative, tese a far conoscere finalmente al grande pubblico un nome del quale probabilmente la maggioranza delle oltre cinquemila atlete che gareggeranno a Parigi non ha mai sentito parlare. Curato dalla Fondazione Alice Milliat e da l’Équipe, a maggio è stato pubblicato Merci Alice, straordinaria galleria di ritratti della stessa Milliat e di altre 79 campionesse olimpiche e paraolimpiche, tutti firmati da donne. Un nuovo documentario sulla vita di Milliat, realizzato dalla regista e autrice Anne-Cécile Genre, ha avuto un buon successo di pubblico e di audience nelle scorse settimane nei cinema e su diversi canali televisivi francesi. Mentre la sua figura è al centro di una mostra aperta da poco al Museo nazionale dello sport francese di Nizza.

Nata Alice Josephine Marie Million nel 1884 a Nantes, la nostra eroina aveva appena vent’anni quando nel 1904 sposò il commerciante francese Joseph Milliat a Londra, dove si era trasferita due anni prima. Nel Regno Unito Alice lavorò come babysitter e stenografa, ma soprattutto diede sfogo alla sua passione per lo sport, praticando il canottaggio e il nuoto, attività all’epoca considerate sconvenienti per le donne nella sua Francia. Ma quando suo marito morì improvvisamente lasciandola vedova e senza figli, Milliat decise di tornare in patria, stabilendosi a Parigi. La Prima guerra mondiale era scoppiata da qualche mese. Prima di lasciare Londra Alice aveva avuto il tempo di vedere la nascita del movimento delle suffragette, che nel 1918 avrebbe portato alla parziale estensione del diritto di voto alle donne. Sorgeva una nuova alba nella lotta per l’emancipazione femminile. “Alice – dice Danger – è pienamente dentro la prima ondata del femminismo e l’esperienza inglese fu cruciale. Volle esserne parte e il suo fronte fu quello dello sport”.

Nel 1915 Milliat diventò presidente del Fémina Sport, un club parigino per sole donne dove si era iscritta per continuare il canottaggio. Due anni dopo fu tra le fondatrici della Fsfsf, insieme al dottor Raoul Baudet e alla celebre Marie Surcouf, la prima donna francese a ottenere il brevetto di pilota per palloni aerostatici. Alice fu subito tesoriere, poi segretario generale e infine presidente nel 1919: “Lo sport femminile deve avere lo stesso posto di quello maschile nella vita sociale”, disse nel suo discorso inaugurale.

La sua battaglia con il Cio cominciò da quel momento. All’inizio puntò tutto sull’atletica leggera, lo sport più glamour ed evocativo. La sua prima richiesta a de Coubertin fu di ammettere le donne alle gare di atletica nelle Olimpiadi di Anversa del 1920. Ma il barone oppose un rifiuto irridente. Milliat rilanciò, organizzando l’anno dopo un meeting internazionale femminile a Monte Carlo, che ebbe grande successo ma la convinse che fosse necessario un passo ulteriore: dopotutto, a prendersi il merito di tutto fu Sigfrid Edström, boss della Federazione internazionale di atletica. Lei capì che era necessario allargare il fronte.

Così, nel marzo 1921 Milliat fondò la Federazione internazionale dello sport femminile (Fsfi) che raggruppava le nascenti federazioni di ogni disciplina dedicate alle donne, fissava gli standard tecnici per gli eventi, teneva il libro dei record. Inesauribile, cogliendo il potere della pubblicità e dei media, Alice si muoveva in ogni direzione: oltre l’atletica, partite di calcio, una delle quali nel 1920 a Manchester aveva attirato 25 mila spettatori. E poi rugby, nuoto, pallacanestro, corsa campestre, hockey su prato.

Forte della nuova federazione, Alice tornò a parlare con de Coubertin, convinta di poterlo convincere a integrare le prove femminili nelle gare di atletica alle Olimpiadi di Parigi del 1924. Ma anche stavolta, il vecchio misogino fu irremovibile. “Fu lì – racconta Danger – che maturò la scelta del fai da te”. “Il Cio non vuole le donne? – furono le parole di Milliat – Allora perché non dovremmo avere le nostre Olimpiadi? Dobbiamo inchinarci all’indifferenza o alla dissimulata ostilità degli uomini? Non sarebbe degno di donne sportive come noi. Dimostreremo loro che sappiamo prendere in mano i nostri destini”.

Ma la battaglia sarebbe stata ancora lunga anche dopo la storica giornata del 20 agosto 1922. La furbata del Cio, di ammettere un piccolo numero di donne ai Giochi del 1924, creava una difficoltà in più. “La partecipazione alle Olimpiadi – dichiarò Milliat in una riunione della sua Federazione internazionale nel 1926 – può essere soltanto totale, le donne non hanno nulla da provare e non possono essere usate dal Cio per fare esperimenti. Queste partecipazioni limitate non servono a nulla”.

Il negoziato con i dirigenti di Losanna fu duro, ma alla fine uscì un compromesso. Lei, pragmatica, accettò di non chiamare più “Olimpiadi” ma “Campionati mondiali” femminili i suoi eventi quadriennali (che si tennero a Göteborg in Svezia nel 1926, a Praga nel 1930 e a Londra nel 1934 con più di 300 partecipanti) e il Cio ammise alcune prove di atletica per le donne alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928. Milliat ne avrebbe volute dieci, il Comitato olimpico ne concesse solo cinque, con Alice unica giudice di gara donna in un mare di uomini. Il diavolo ci mise la coda: negli 800 metri, la distanza più lunga prevista per le donne, le prime tre batterono il record mondiale, ma molte atlete caddero sfinite e cianotiche dopo la linea del traguardo. Più che sufficiente per scatenare una campagna mediatica contro una “scena inquietante”, dove commentatori sportivi, tutti maschi, sostenuti da improbabili pareri medici, bollarono come eccessiva e pericolosa per una donna una simile prova. Sarebbero passati 32 anni prima che gli ottocento femminili fossero riammessi nelle prove di atletica: accadde a Roma 1960. “Venne considerato uno scandalo perché erano donne – chiosa Danger – ma era successo spesso lo stesso con gli uomini ed era considerato normale”.

Gli anni Trenta non sorrisero a Alice Milliat. L’onda lunga del movimento femminista conobbe il suo riflusso, frenata dalla Grande depressione globale, dal ruolo marginale di “mogli e madri” imposto alle donne soprattutto nei paesi delle dittature nazifasciste come Italia e Germania, dal piano inclinato che trascinò l’Europa e il mondo verso l’abisso della Seconda guerra mondiale. Di salute molto fragile, malata, attaccata da più parti per i suoi modi non convenzionali di finanziare la Federazione internazionale, come il lancio di una lotteria, Milliat si dimise nel 1935 dalla guida della Fsfi che le sopravvisse appena un anno. “Pagò tutto in una volta – spiega Danger – I suoi detrattori la definirono una Mussolini al femminile. L’accusarono di aver truccato le elezioni federali. Ma era un’eroina, non un’ingenua. Aveva un ego smisurato, ma era quello che ci voleva per combattere una battaglia come la sua”.

Gli ultimi anni, Alice Milliat li trascorse in un anonimato quasi totale. Perfino i suoi vicini di casa non sapevano nulla del ruolo gigantesco che aveva avuto nello sport. Quando morì, nel 1957 a Parigi, non ci fu neanche un funerale. Venne seppellita al cimitero Saint-Jacques a Nantes, la città dov’era nata, in un lotto della famiglia di sua madre. Sulla sua tomba, per molti anni, non ci fu neppure un nome.

Eppure, è stato grazie a lei, che Olimpiade dopo Olimpiade le donne sono state accettate in sempre più discipline olimpiche. La parità è stata lenta: c’era una donna su dieci atleti a Roma 1960, meno di una su quattro a Los Angeles 1984 e le atlete erano ancora poco più di quattro su dieci a Pechino 2008. Oggi la piena parità di genere è finalmente diventata una missione del Cio. Quelli di Parigi, come abbiamo detto, sono i primi Giochi a centrare l’obiettivo. “E’ una buona notizia. Alice sarebbe stata fiera – dice Sophie Danger – ma è veramente finita la sua battaglia? Se ci guardiamo intorno il mondo sportivo è ancora un mondo maschile, giudici, dirigenti, allenatori, le federazioni sono ancora dominate dagli uomini. Dobbiamo celebrare Alice come un modello a cui ispirarci. La lotta continua”.

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