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Parigi 2024

In Corea del sud il tiro con l'arco è diventata scienza

Francesco Gottardi

In Francia la Nazionale coreana ha appena replicato l’ennesimo successo nella gara a squadra femminile e maschile. Ragioni di un dominio da record? Metodi, infrastrutture e meritocrazia

Non è bastata nemmeno l’aura di Napoleone, là nella maestosa spianata des Invalides, per sovvertire un pronostico già scritto – e regalare un clamoroso trionfo alla Francia. Nel tiro con l’arco, disciplina sportiva figlia d’arte militare, vince la Corea del sud. Ancora. Coi suoi uomini e le sue donne. Ventinove medaglie d’oro dal 1972 a oggi: quasi il 75 per cento delle totali assegnate. Un’egemonia nazionale senza precedenti nella storia delle Olimpiadi: l’affermazione della squadra femminile a Parigi è la decima in altrettante edizioni della categoria. Quella maschile ne ha portate a casa 6 delle ultime 7 (e quel honneur, Italia, Londra 2012, per aver interrotto il filotto). Nessun altro sport, in nessun altro momento, ha mai visto un singolo paese inanellare simili cappotti. La risposta è che mai come in Corea del sud lo sport s’è fatto ‘scienza’. Virgolette solo per rispetto accademico.

Un rapido sguardo agli annali del torneo individuale, oggi al via a Parigi. Non è un caso se il quadro cambia: le ragazze dominano, ma qualcosa concedono; gli uomini sembrano perfino comuni mortali, secondi dietro gli Stati Uniti nel medagliere perpetuo (va ribadita la data spartiacque del ’72, quando il tiro con l’arco ottenne dignità olimpica e regole standard). È così per un semplice fattore umano e statistico: il singolo arciere, il singolo colpo, possono andare a vuoto anche sotto le più favorevoli condizioni. Aumentando il numero delle osservazioni, i margini di errori diminuiscono. E così una tesi diventa significativa. Ecco: ai coreani bastano tre campioni – statistici e olimpici – per diventare certezza nella gara a squadre. In fin dei conti, in fatto di frecce, scientifico è tutto a Seul: coinvolgimento della popolazione, metodi di preparazione, scenari di gara e selezione dei partecipanti.

Qualche numero, oltre le suggestioni. C’è chi vorrebbe ricondurre l’inclinazione naturale al tiro fino al gakgung, l’arco di corna di bufalo che per due millenni ha contraddistinto la storia bellica coreana (ma allora cosa dovrebbero dire gli inglesi e il loro longbow, micidiale nel Medioevo? Ori olimpici vinti: zero). C’è ben altro, nella penisola all’estremità dell’Asia. 300 centri di allenamento professionale, per esempio, in un paese poco più grande del Portogallo. Trentamila iscritti ad alto livello, coltivati sin dall’infanzia: in certe scuole elementari il tiro con l’arco fa parte dell’educazione fisica. Poi le tecniche di addestramento: si dice che ci vogliano sei mesi di preparazione intensiva – postura, biomeccanica, psicologia – prima che un aspirante atleta scocchi la sua prima freccia. In seguito troverà a disposizione i migliori maestri, i migliori avversari, le migliori infrastrutture.

Per avvicinarsi a Tokyo 2020, i coreani avevano costruito addirittura un’arena fac-simile della sede olimpica giapponese: modalità pioggia, sole e vento. Nulla lasciato al caso. Più difficile oggi replicare les Invalides, con tanto di cupola seicentesca. Ci sono riusciti comunque, dietro la sponsorizzazione tecnologica di Hyundai, altro orgoglio del paese. Ultimo tassello: la scelta del team olimpico. Nessun nepotismo, nessuna riconoscenza nemmeno verso i campioni iridati. Contano solo i dati recenti sul bersaglio: chi vanta i punteggi migliori vola ai Giochi. Stop. Per i coreani arrivare alle Olimpiadi è più difficile che vincerle. Per questo, il resto, è ordinaria supremazia.

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