Thomas Ceccon, il superuomo del nuoto italiano che si commuove dopo l'oro olimpico
Primo sul podio nei 100 dorso, lascia emergere l'uomo dietro l'atleta. Il suo è il secondo oro dell’Italia a Parigi. La determinazione e la meticolosa preparazione dietro un successo che era sogno e ossessione
Allora è umano. Quando lo vedi in piscina penseresti che Thomas Ceccon sia un robot, un superuomo programmato per nuotare in qualsiasi stile gli venga in mente. Ma quando poi arriva sul podio olimpico con l’oro dei 100 dorso al collo, comincia a suonare fratelli d’Italia e pure i francesi battono le mani seguendo il ritmo, lui lascia emergere la commozione, fa scappare le lacrime, ecco che l’atleta, anzi il super atleta, lascia spazio all’uomo che ama definirsi artista, come scrive per prima cosa sul suo profilo Instagram, dove ha 176 mila followers che continuano ad aumentare perché un oro olimpico ti fa andare oltre la tua comfort zone, ti proietta in un mondo dove dovrai essere bravo a gestire le tentazioni se vuoi continuare a nuotare a questo livello e magari aggiungerci qualche fatica in più.
Thomas non è uno che inciampa nelle parole. Gli piace dire quello che pensa, come giovedì scorso al villaggio olimpico quando al presidente Mattarella che si scusava chiedendo agli atleti se non gli avesse fatto perdere troppo tempo, lui si è distinto e in un mare di “no presidente” se ne è uscito con uno straordinariamente sincero: “Un po’ sì, ho dovuto fare tutto in fretta”, di cui non si è pentito perché dopo la medaglia ci ha scherzato su: “Adesso gli direi ha visto che avevo da fare?”.
Il suo oro, il secondo dell’Italia a Parigi, il settimo del nuoto azzurro dopo Fioravanti (2), Rosolino, Pellegrini, Patrinieri e Martinenghi, è un po’ sogno e un po’ ossessione. “Quando ero ragazzino, avrò avuto 15 anni, ero in macchina con Alberto Burlina, direzione allenamento. Erano le prime volte che andavo via con lui. Mi chiese: “Qual è il tuo sogno?”. “Vincere l’Olimpiade”. “Calma, tranquillo, una cosa alla volta”, mi rispose. Però la sostanza quella era. Ai Giochi è bello già semplicemente andare, certo... Ma fin da allora io già sapevo che l’oro lo potevo vincere. Erano tre anni che preparavo questa gara in ogni minimo dettaglio, anzi avevo pensato pure alle interviste dopo il successo ma all’inizio ho fatto una mezza scena muta... Il giorno è stato oggi, non potrei essere più contento di così”. Per mettersi al collo quell’oro, ha curato ogni dettaglio. Per la prima volta ha pensato anche a depilarsi il petto per non offrire ostacolo all’acqua. Lo aveva già fatto con i baffi che lo avevano reso famoso, dandogli quell’aspetto alla Mark Spitz che per h nuota vuol dire tanto. Ma quell’oro non era solo un sogno, era diventato anche un’ossessione: “La medaglia d’oro era un’ossessione, e questo mentalmente può essere logorante, tantissimissimo, e se avessi perso non sarei andato a casa contento. Sto provando dentro qualcosa di molto forte. Ai Mondiali non mi era mai successo, ma questa è una gara che capita ogni quattro anni. Tutto in un minuto, e se sbagli un dettaglio ti ritrovi che hai perso ogni cosa. Il nuoto è così, uno sport un po’ crudele, come tanti altri a dire il vero, dove ci si gioca tutto sui decimi, puoi buttare via tutto... Guardate Benedetta che per un centesimo ha perso una medaglia. No è che con un centesimo in meno hai lavorato meglio…
A me stavolta è andata bene, come volevo, come me l’ero programmato. L’anno scorso, ai Mondiali, avevo perso perché ero passato troppo piano ai 50, per paura poi di ritrovarmi troppo stanco nel finale. E mi ero riscaldato troppo poco, è la prova che dagli errori si impara. In una finale olimpica del genere bisognava fare forte i primi 50 e provare a tenere fino alla fine, non c’era un’altra scelta. Negli ultimi metri ero veramente al limite”.
Adesso sarebbe bello lasciarsi andare. Festeggiare. Ma c’è l’altro lato della medaglia. Ci sono le altre gare perché Thomas combatte la noia nuotando: “C’è anche una cosa brutta, il fatto che ho pure i 200 tra poco e purtroppo me la posso godere solo in questi immediati momenti. Al risveglio dovrò fare finta di non avere vinto, altrimenti nei 200 faccio 2’03” e non è bello. È il destino di quelli che fanno più gare, come Marchand, che non si è potuto riposare dopo i 400 misti. Il massimo che mi concederò sarà giocare a carte con gli altri”. Con il suo compagno di stanza Martinenghi. Una cameretta tutta d’oro. “Gli avete riferito che ho detto che aveva avuto culo a vincere l’oro… però il culo non esiste nel nostro sport. Dietro a una medaglia c’è tanta fatica”. Quella che ha rischiato di compromettere la stagione, quando a dicembre gli è caduto un peso su un dito della mano. “Nel percorso verso i Giochi c’è stato un infortunio, abbiamo preso degli schiaffoni (le squalifiche agli Europei in vasca corta), non tutto è stato semplice, neppure gestire le pressioni. All’inizio si annoiava a fare solo uno stile e nel dorso forse era meno dotato... In futuro? Magari i 200 misti”, spiega il suo allenatore Alberto Burlina che racconta della sua sensibilità all’acqua, della sua dote di galleggiamento di quel fisico enorme (è alto 197 cm) ma con la vita stretta, il sedere basso. “Ha questa forma alla Phelps”, racconta. Ma soprattutto ha le idee chiare: “A Tokyo ero arrivato da 14° iscritto, e mi sono piazzato quarto. Quasi per gioco. Qui ero venuto per vincere e questo oro lo dedico a me stesso”. Ma non è finita qui. Per battere il suo amico Nicolò che è stato il primo oro azzurro di questi Giochi, non gli resta che raddoppiare.