Parigi 2024
Il ciclismo a Montmartre, prima delle Olimpiadi
Lo strappo decisivo delle prove in linea, verso la basilica del Sacro Cuore, ha una lunga storia di corse di biciclette, tutte abbastanza assurde
"Mi chiamo Laurent Patrick Fignon e sono nato a Parigi venerdì 12 agosto 1960, alle 3 e 10 del mattino. All’ospedale Bretonneau, ai piedi della collina di Montmartre. [...] In quegli anni, anche nelle strade delle nostre grandi città, tutti, con orgoglio, correvano dietro alla velocità, diventata un valore condiviso, un’aspirazione popolare, una prova di libertà". È l’incipit del secondo capitolo di Eravamo giovani e incoscienti, l’autobiografia di Laurent Fignon che sta al ciclismo come Open di Agassi sta al tennis. Compare solo una volta il nome della collina di Montmartre, che oggi ospiterà tre volte il passaggio dei corridori della corsa in linea di ciclismo alle Olimpiadi di Parigi 2024, ma è come la certificazione di origini ciclistiche nobili.
La famiglia Fignon si è poi trasferita a est della capitale quando Laurent aveva solo tre anni, ma ciò che ci interessa è la cartolina che ci lascia il Professore dalla Parigi di quegli anni: una città in cui, per la prima volta, la velocità delle biciclette veniva soppiantata dal falso mito dell’automobile come vettore di autodeterminazione e indipendenza. Nei decenni precedenti, in modo piuttosto impensabile per la realtà di oggi, Montmartre era conosciuta per i cabaret del Moulin Rouge, per aver ispirato pittori quali Van Gogh e Toulouse-Lautrec, ma anche per essere un gran posto per le biciclette.
Nel libro “Rainbows in the mud: inside the intoxicating world of cyclo-cross” l’autore e voce narrante Paul Maunder sta guardando la tappa finale del Tour de France. Voglioso tuttavia di prendere una boccata d’aria fresca, dall’andirivieni dei Campi Elisi si dirige verso Montmartre. Qui ricorda di quando la collina, anziché da turisti tedeschi in fila, era invasa dal ciclocross e dal suo pubblico: "Il percorso era una semplice combinazione di vicoli di città, sentieri attorno ai mulini sulla cima della collina e rampe di scale di pietra (280 gradini per ogni giro, secondo una fonte). Un criterium mischiato al salire le scale".
Sembra un’assurdità, eppure all’epoca la partecipazione degli atleti era di primo livello. Nel 1947 e nel 1948 vinse Jean Robic, per esempio, che nello stesso ‘47 vinse il Tour de France. Su Pinterest un utente suggerisce che partecipò al cross di Montmartre anche Lysiane “Lyli” Herse, pioniera che vinse tappe anche al famoso primo Tour de France femminile di Millie Robinson e fu nove volte campionessa nazionale. Roger Rondeaux arrivò solo secondo nel ‘47, ma era un pezzo grosso del ciclocross dell’epoca: tra 1951 e 1953 vinse tre Mondiali di fila.
Roger Piel, invece, oggi è noto per essere stato lo scopritore e manager di Raymond Poulidor, ma al ciclocross di Montmartre fece secondo nel ‘44 e vinse nel ‘45. Prima di correre in bicicletta e vincere il cross di Montmartre, Victor Cosson faceva il carpentiere alla Renault; dopo rimarrà nel ciclismo, guidando per anni le motociclette di giornalisti a seguito delle corse. Ci sarebbero decine di altre storie come questa, sicuramente, se gli albi d’oro non fossero limitati ai primi tre posti. Fatto sta che a guardare questo gruppo di squinternati a pedali ogni anno accorrevano centomila persone.
Paul Maunder s’immedesima in un corridore durante la corsa: "Tirando dritto verso la basilica del Sacro Cuore, arrivo alla base di una di quelle rampe di scale. Immagino l’avvicinamento in bici, il balzo giù da essa, la fase di portage e la corsa su per le scale – il tutto indossando scarpe di pelle pesanti con tacchette di metallo. Assurdo, ma divertente". Questo invece è un vecchio resoconto della vittoria, nel ‘42, di Robert Oubron: "Fu una danza folle, estenuante e pericolosa, scandita da incessanti salite e discese di scale. Milletrecento scalini in tutto, e lui, imperiale nella sua maglia Mercier a pois bianchi, in testa dal secondo giro". Non serve in realtà un grande sforzo d’immaginazione per capire meglio cosa fossero quelle gare: in qualche modo piccoli frammenti video sono arrivati fino a noi.
Circa 80 anni fa, ma sembra un altro mondo. Case fatiscenti, corridori che scivolano giù da scalinate infinite, la risalita dei gradini mentre la funicolare scende, la musica di sottofondo primonovecentesca, uomini col cilindro in testa e altri uomini laccati che voltano la testa al passaggio dei corridori, immaginifici zoom sulle gambe dei corridori, vincitori che – sorridendo per la vittoria – mostrano denti d’argento: profuma tutto di ciclismo eroico. Le riprese staccano dai corridori solo per inquadrare il Moulin de la Galette, tifosi o un cagnolino che agita le zampe come a voler salutare la corsa. La voce fuori campo a un certo punto esclama: «150 concorrenti nella popolare gara di ciclocross de “L’Humanité” partono alla conquista della salita di Montmartre. Come formiche pedalanti, si sono distribuiti lungo le pendici della famosa collina del XVIII arrondissement».
Prima di alcuni video postati dall’Ina (Istituto nazionale dell'audiovisivo, ente pubblico francese incaricato di archiviare tutte le trasmissioni radiofoniche e audiovisive del Paese), compare un avvertimennto: "Questo documentario proviene da notizie prodotte e controllate dal regime nazista e dal regime di Vichy e diffuse in Francia tra 1940 e 1944". Se a causa della guerra il Tour de France non riprese fino al ‘47, già nel dicembre del ‘45 venne organizzato il ciclocross di Montmartre. La Quarta Repubblica nascerà solo dieci mesi dopo.
Organizzato nelle prime edizioni dal quotidiano “France Socialiste” e successivamente da “L’Humanité” tra Rue Lepic, Rue Coulaincourt e Rue des Martyrs prima di terminare in Place du Tertre, per un certo periodo abbandonata dai pittori – vide la sua ultima edizione nel 1948. Ma la storia ciclistica di Montmartre è ben più variegata: già tra Otto e Novecento, infatti, venivano organizzate competizioni tra i ragazzi che consegnavano i giornali in bicicletta.
I porteurs recapitavano giornali non solo porta-a-porta, ma anche dalle stampatrici alle edicole. Spesso giravano con bici personalizzate, come le Alex Singer e le René Herse, e venivano pagati per giornale consegnato. Tra le edizioni della mattina e del pomeriggio il lavoro abbondava e più eri veloce – anche nella pianificazione dei percorsi – più soldi facevi. Capitava che i porteurs fossero amatori o semi-professionisti che sfruttavano la professioni per allenarsi. Alcuni di loro rievocano che, consegnando giornali, guadagnavano di più degli editori dei giornali stessi.
L’organizzazione di un criterium tra porteurs fu un passo quasi naturale. Il portapacchi anteriore doveva essere caricato con un faldone da 15 chili di giornali, le squadre erano divise per testate giornalistiche (pare fosse fortissima quella di Paris-Soir) e l’arrivo era in cima a Montmartre. Pierre Vitupier, che vinse il criterium nel 1953, ricorda che le velocità medie sfioravano spesso i 40 chilometri orari per un’ora di gara: "Correvo nella nazionale francese su pista, per cui pensavo che sarei riuscito a battere i celerini pedalando con una gamba sola. Invece il primo anno arrivai sesto o settimo. L’anno successivo mi sono allenato come si deve, quasi il criterium dei porteurs fosse un Mondiale: e vinsi".
La storia ciclistica di Montmartre continua fino ai giorni nostri, sebbene con meno impatto popolare. Nel 2007 e nel 2011 un evento di downhill urbano ha visto le scalinate di Montmartre ricoperte di paraboliche e pedane in legno per i salti, ma dell’evento è difficile trovare qualsiasi cosa tranne un video-recap in cui, tra le altre cose, un poliziotto tenta di affrontare il percorso di gara e cade due volte. Si sa che durante la pandemia la collina di Montmartre è stata la salvezza di tanti ciclisti parigini (Elisabeth racconta che è arrivata a percorrerla fino a sei volte in un’ora per allenarsi), che più di recente il Montmartre Vélo Club vi ha organizzato un criterium assurdo, che Mathieu van der Poel ha trascurato Montmartre e non ha ritenuto necessario fare la ricognizione del circuito finale prima della prova olimpica.
I video pubblicati dagli astanti, effettivamente, sono abbastanza assurdi. Così come la regola di un massimo di 30 km/h sul tracciato durante le prove. Fa strano vedere un gruppo numerosissimo di ciclisti affronta Rue Lepic ad un ritmo così sonnolento: tra gli altri si distingue l’atleta della Mongolia col telefono in mano, come ogni cicloturista che sale per la prima volta sugli ultimi tornanti dello Stelvio. In un altro c’è Wout Van Aert in solitaria (non è chiaro come, ma i quattro della nazionale belga sono riusciti a farsi la recon per conto loro, e col coach Sven Vanthourenhout): anche un gendarme, pur non scomponendosi, si accorge della bellezza della pedalata di Van Aert e tira fuori il telefono per filmarlo.
Sta per succedere, insomma, la cosa più importante nella storia ciclistica di Montmartre: il passaggio della corsa olimpica. C’è chi spera che possa spianare la strada ad un ripensamento alla solita passerella finale, piatta e noiosa, del Tour de France. C’è chi pianifica da mesi il tragitto per evitare le transenne parigine e chi, per andarla a vedere, si muoverà con calma dopo pranzo. Chi la vedrà passare sotto la finestra di casa propria e chi è venuto da altre nazioni apposta per vedere queste due corse.
Forse – chi può dirlo con certezza – la corsa passerà accanto a dove visse Lucien Petit-Breton, quando nel 1902 si trasferì a Montmartre per cercare di dare una svolta alla sua carriera. Svolta che poi arrivò, alla grandissima, ma come ricorda Giovanni Battistuzzi Petit-Breton non fu entusiasta del suo soggiorno a Montmartre: «Una stamberga immonda, ma costa pochi franchi. Il quartiere è uno schifo. Ubriaconi, puttane, ladri e magnaccia, la peggio feccia di Parigi tutta insieme. Serve una buona ragione per salire a Montmartre». Un oro olimpico è una buona ragione? Così buona che vi saliranno tre volte.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA