La squadra italiana ai campionati europei di atletica leggera a Roma - foto LaPresse

Il Foglio sportivo

L'Italia dell'atletica ha imparato a fare squadra

Umberto Zapelloni

Il direttore tecnico Antonio La Torre al Foglio: "Jacobs ci ha fatti alzare dal divano, Tamberi ha capito l’importanza del gruppo"

Una volta, quando cominciava l’atletica, la regina delle Olimpiadi, l’Italia salutava e si metteva a fare altro. Si accontentava delle sue medaglie conquistate con la scherma, il tiro, il canottaggio, le nostre antiche miniere d’oro. Qualche medaglia dalla fatica arrivava, certo, come scodare Alberto Cova, le tante medaglie dalla marcia o la maratona di Bordin e Baldini. Dopo Tokyo tutto è cambiato e aspettiamo i 100 metri, il lancio del peso o il salto in alto come se ci apprestassimo ad assistere a una finale di fioretto a squadre. Siamo diventati un popolo di nuotatori con Paltrinieri, Ceccon e Martinenghi e speriamo di rimanere anche su qualche trono dell’atletica. Siamo già inciampati sulla marcia con Stano e Palmisano, ma adesso stanno per entrare in gioco i nostri candidati all’Oscar. Arrivano Marcell Jacobs, Leonardo Fabbri, Nadia Battoccletti, Lorenzo Simonelli e Gimbo Tamberi. Il presidente Mei alza la posta in gioco, prevedeva 8 medaglie, ma dalla marcia gli è già scivolato via qualcosa. “Mi piacerebbe che il presidente avesse sempre ragione. A Tokyo avevamo 10 finalisti da qui ad averne 15/16 qualcuno dice addirittura 18 sarebbe un grande lascito, o per usare la parola che si usa alle Olimpiadi, una grande Legacy per il futuro dell’atletica italiana”, commenta Antonio La Torre, il direttore tecnico dell’atletica azzurra che è riuscito a trasformare uno sport individuale in uno sport di squadra, a trasmettere ai ragazzi quell’energia che soltanto le grandi squadre riescono a produrre grazie alla forza del gruppo.
 

“Jacobs ha fatto alzare dal divano Lorenzo Simonelli, adesso tocca a loro fare alzare dal divano la nuova generazione – commenta – Dietro c’è un lavoro legato al fatto di far vivere l’energia di una squadra in uno sport individuale, quello che trovo di particolare di questa new age è che sono ragazzi che troppo spesso da fuori giudichiamo un po’ sommariamente e invece hanno saputo dimostrare che sanno stare in questo tempo complicato. Guardate quanti episodi di fragilità e cedevolezza ci sono attorno a noi, invece loro non hanno paura ad affrontare queste fragilità e cominciano a intraprendere dei percorsi che poi li portano a essere se stessi”. La Torre cura la tecnica, ma anche lo spirito. Sa come e quando toccare i tasti giusti come quando “dopo la gara del preso di Tokyo in cui aveva mancato la qualificazione di 10 centimetri, Leonardo Fabbri è andato subito ad allenarsi. Lì ha cominciato a costruire la sua Olimpiade di Parigi con un percorso tecnico di primissimo livello”.
 

“Avete visto in questi giorni cos’è l’Olimpiade – aggiunge – il mondo continua ad allargarsi e dentro questo mondo allargato dobbiamo essere delle belve feroci da un punto di vista agonistico, con il garbo che ci compete, Veder sorridere Leo e pensare che sia una belva feroce è una contraddizione di termini, però se l’esplosività che finora ha espresso la porterà qui sorrideremo tutti, ci divertiremo, però dobbiamo ricordarci che gli altri esistono e il mondo continua a produrre finalisti, competitor. L’errore più grande che possiamo fare è dare per scontato che dopo Roma sarà una marcia trionfale”. L’ubriacatura degli Europei con 11 ori, 9 argenti e 4 bronzi non deve trarre in inganno. Il mondo qui si è allargato ad America, Asia, Africa. “Questa è l’atletica e questi ragazzi a 20 anni, 19 o 21 che siano, non hanno paura di affrontare il mondo. Se ne vogliono prendere un po’ sanno che è difficile ma lavorano da professionisti per prenderselo”. La sfida è lanciata.
 

La Torre sottolinea la diversità della nuova generazione: “Sono diversi nelle forme di comunicazione, nel modo di vivere il mondo. Credo che la cosa bella sia l’esaltazione di questa diversità che è una cosa bella. Una ricchezza non solo dal punto di vista multiculturale perché c’è anche la diversità caratteriale che ci aiuterà a superare momenti diversi. Non puoi mettere sullo stesso piano il carattere di Gimbo e quello di Nadia Battoccletti, ma a loro modo sono persone che sanno dare a chi gli sta di fronte messaggi molto importanti”. Hanno capito il significato del vecchio slogan Facciamo squadra. “Per questi ragazzi il fare squadra è diventato un tormentone. Ci ho lavorato tantissimo, ma non me lo prendo come merito mio. La cosa importante è quello che i ragazzi riescono a raccogliere. Lo dice Gimbo e se lo dice Gimbo credo sia il miglior marchio di qualità. Essere squadra aiuta tutti a trovare le energie nei momenti complicati non dimenticando che resta uno sport estremamente individuale”.
 

L’importanza di Gimbo. Un simbolo, ma anche uno stimolo. Un modello, ma anche il primo ad aiutarti. “Io ho cominciato agli Europei indoor di Glasgow e Gimbo ha fatto il capitano con me… abbiamo fatto questo cammino parallelo e un giorno mi ha detto “hai ragione la squadra è importante”. Mischiare i tavoli, parlarsi  tra saltatori, velocisti mezzofondisti.  Prima c’erano mezzofondisti tristi, lanciatori separati, oggi questi ragazzi parlando di se stessi con gli altri, riescono a trasmettersi energia reciprocamente. Gimbo lo ha capito da solo e i fatti glielo hanno confermato. Sa caricare come nessun altro al mondo”.

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