Il Foglio sportivo - Il ritratto di Bonanza
Quanto è bello partecipare alle Olimpiadi
Il bello delle Olimpiadi è che accendono una luce su chi vive nell’ombra il sacrificio dello sport. Che ne sappiamo noi, di loro, per il resto dell’anno?
Se le Olimpiadi fossero una fiaba, sarebbero certamente quella di Cenerentola, dove ci sono zucche, scarpette, matrigne, sorellastre cattive, una fata e poi lei, appunto, Cenerentola, la protagonista di un riscatto. Il bello delle Olimpiadi è che accendono una luce su chi vive nell’ombra il sacrificio di sport anche molto faticosi. Che ne sappiamo noi, per il resto dell’anno, di lottatori, sparalesti, tuffatori spanciati, spadaccini spuntati, nuotatori spellegrinati (della Federica che fu), signori degli anelli rubati, saltimbanchi e acrobati di vario genere? Che ne sappiamo noi, così coinvolti a raccontare il calcio in ogni piega (ma quanto siamo ridicoli quando ci appropriamo dell’epica come se fossimo noi i protagonisti?), scindendo l’atomo della polemica, parlando di milioni come se fossero bruscolini (Frassica by Arbore il più avanti di tutti) dimenticandoci della natura popolare del calcio, unico sport che comincia (forse cominciava) da una strada e finisce in una reggia? Che ne sappiamo noi di Cenerentola, fiaba dalla morale facile, eppure così giusta, in mezzo ai cinque cerchi olimpici?
Prendo l’ultima arrivata (almeno alla mia attenzione) senza una scarpetta di cristallo in mano: Francesca Fangio. È uscita nella semifinale dei 200 rana con un tempo non all’altezza delle sue possibilità. Si è presentata all’intervista post gara, quella dove una nuca fa domande, con la sua calata toscana e lo sguardo spaesato. Poi, lentamente, ha messo a fuoco la sua impresa, parlando, tra le lacrime, dell’emozione vissuta in questi giorni, della grandezza delle Olimpiadi a prescindere dal risultato. A un certo punto, lievemente, senza intento polemico, ma con una soavità che dovrebbe far riflettere un’intera categoria, ha detto, “per i giornalisti magari è brutto sentirsi dire: quanto è bello partecipare”. Si è preoccupata di noi, dei poveri giornalisti, la timida Cenerentola, mentre dovremmo essere noi a preoccuparci di come svolgiamo il nostro lavoro, dimenticando, con la matita rossa in mano, gli immensi sacrifici che queste atlete/i fanno. Noi che siamo zucche e cavalli, fate e matrigne, e anche sorellastre cattive, come la Di Francisca, oggi commentatrice, così impegnata a rimanere fedele alla sua immagine di perfida della pedana (è stata educata in questo modo, lo dice la sua storia), da risultare addirittura crudele nei confronti di chi si mostra in pubblico diversamente da come è stata lei.
Che poi la fiaba di Cenerentola finisce in modo esemplare, dovremmo ricordarlo tutti. La giovane Cinderella si sposa il principe, diventa ricca e potente, si compra auto sfavillanti (invento), una villa in Sardegna (e perché no), un jet privato (potrei insistere) e invita a vivere con sé le sorellastre cattive. Perché le Cenerentole sanno anche perdonare le debolezze altrui, le Di Francisca invece no.