fatica e strazio
Questo immenso teatro della crudeltà chiamato Olimpiadi
Alla bellezza dei giochi, al campione universale di umanità che rappresentano, corrispondono la fatica impiegata per anni dagli atleti, l’ansia del primeggiare, la caccia alla medaglia. E ora anche il mito crudele della metamorfosi
Le Olimpiadi sono spettacolo per famiglie, in apparenza, e magari di pura passione per la gara in sé, in realtà a guardarle bene sono un immenso teatro della crudeltà. Alla bellezza dei giochi, alla loro varietà, al campione universale di umanità che esprimono e rappresentano, corrisponde la costruzione o coltivazione intensiva dei corpi degli atleti con effetti di armonia e bellezza classica e di deformazione funzionale del visus e della muscolatura. Si capisce a un primo sguardo la fatica impiegata in anni di preparazione accanita, si intuisce come sogno e incubo l’ansia del primeggiare che è la vera gloria di competizioni alle quali in teoria si dovrebbe prima di tutto partecipare decoubertianamente, e solo dopo eventualmente vincere. Balle. La caccia alla medaglia cancella ogni aspetto genericamente sportivo, com’è d’altra parte naturale, e impegna in una vera guerra per il traguardo finale.
Se sei fuori per un centesimo di secondo, e come la nostra bella e giovane atleta del nuoto piangi lo stesso di gioia, dai superbamente dello stronzo a quel centesimo della derelizione o del quarto posto, ti considerano una mostruosità, De Coubertin è l’elemento freak della compagnia e partecipare non ha senso se non per salire sul podio. Tremendo.
Il copione, cerimoniale e protocollo compresi, è scritto e concepito per la glorificazione del momento assoluto, che è evasivo, si afferra a un prezzo altissimo o sfugge alla presa più ardente, non corrisponde a sforzi e slancio personale o di squadra, che possono esserci al massimo grado e non essere ricompensati nemmeno con una miserabile mancia, con una consolazione, basta un allentamento, basta una minima distrazione e anni e anni di lavoro, di rincorsa psicologica, di tensione fisica e morale, se ne vanno nel fumo malefico della sconfitta. I nostri occhi e tutta la nostra attenzione corrono appresso agli eroi delle vasche o dei diecimila metri, a fondisti velocisti marciatori e maratoneti, a condizione che vincano, che doppino gli atleti che non ce la fanno, che impongano fatica e strazio polmonare muscolare cardiaco come pegni di vittoria e di eliminazione diretta degli avversari. Nel teatro della crudeltà non c’è un secondo atto, la prossima volta sarà tra quattro lunghi anni, sarà letteralmente un’altra storia che non necessariamente prevede la presenza dei perdenti.
In queste Olimpiadi crudelissimo è poi apparso il mito della trasfigurazione o metamorfosi, cantato con somma crudezza e afflato mistico nel famoso poema di Ovidio in cui dèi e destino modificano identità e modi dell’essere per capriccio o per punizione o per amore. Sarai un legno storto o un toro o una fonte d’acqua perenne a seconda di come il cielo o il divino decidano per te. E per di più qui il gioco è ormonale, riguarda cioè il testimone ultimo dell’identità sessuale e di genere, coinvolge la scienza genomica che è molto peggio di qualsiasi Dio cattivo e vendicativo, eccita la saga dell’opinione, del dubbio, dell’irrisione ideologica, e un’atleta algerina è inchiodata a una discussione sul suo essere donna e all’idea prevaricatrice di una tempesta di testosterone che si abbatta su un’altra atleta che deve addirittura ritirarsi di fronte a una colossale metamorfosi psicofisica dal volto di maschio su un corpo di femmina. Sarà anche un grande spettacolo universale per famiglie e gruppi di passione, ma che spettacolo duro e aspro sono le Olimpiadi.