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Basket a cinque cerchi

Il Dream team americano ha vinto ancora. Ma la musica ai Giochi olimpici ormai è cambiata

Umberto Zapelloni

Quinto oro di fila per gli Stati Uniti, che battono la Francia trascinati da Steve Curry. Il livello del basket europeo si è alzato e gli States hanno imparato che per vincere alle Olimpiadi ci vorranno sempre i migliori. Senza James, Durant e gli altri, la storia sarebbe stata diversa

Il quinto oro di fila del Dream Team americano ci racconta una storia diversa dal solito. Ormai è un dato di fatto: se gli States non dovessero portare i migliori giocatori della Nba, non vincerebbero più i Giochi Olimpici. Il livello del basket europeo si è alzato come dimostrano Francia, Serbia e Germania che hanno occupato i posti dietro alle stelle Usa, anche perché queste sono tutte nazionali che possono schierare a loro volta giocatori in arrivo dalla Nba dove non sono comparse, ma protagonisti come Nikola Jokic, per tre anni Mvp della stagione regolare.

Senza Lebron James, Stephen Curry e Kevin Durant gli americani non avrebbero rimontato contro la Serbia e poi battuto la Francia in finale. Per vincere ai Giochi oggi devono portare i migliori e sperare che siano ispirati come in “big three” con Steve Curry che da anni aveva in mente questa medaglia d’oro, non contento di aver vinto quattro titoli Nba. Nella finale contro i francesi ha realizzato 24 punti, ma il suo show nei tre minuti finali (2’47” per la precisione) è stato qualcosa di stupefacente quando ha infilato quattro bombe da tre punti di fila, 12 punti in 2’12”, mentre la Francia era tornata a sole tre lunghezze con la classe di baby Wembanayama e lo strapotere fisico di Yabusele che nel primo tempo aveva stampato una schiacciata pazzesca in testa a Lebron James prendendosi pure un fallo.

Un’immagine che l’Equipe ha sparato nel paginone centrale e che il giocatore del Real Madrid non scorderà mai. Steve Curry, il masticatore di paradenti, a 36 anni era al suo esordio olimpico. Non aveva mai fatto parte di nessun Dream Team al contrario di Lebron che è al suo terzo oro o di Durant che è addirittura alla quarta medaglia d’oro dopo Londra, Rio e Tokyo. Un fedelissimo della maglia a stelle e strisce. Curry a un certo punto ha deciso che la sua carriera non sarebbe stata completa senza una medaglia d’oro olimpica e ha cominciato a mettere in giro la voce: “Tenetemi un posto, voglio esserci anch’io”. Non è venuto a fare il turista americano a Parigi. Certo è andato a vedersi qualche gara, come quella per le medaglie di Simone Biles, ma non era più il 1992 quando il Dream Team originale passava il suo tempo sui campi da golf di Barcellona, poi Magic, Jordan e Bird scendevano in campo e piallavano gli avversari.  “A quel punto la tua mente si svuota - ha detto Curry raccontando i suoi minuti finali - Non ti interessa davvero l’ambiente in cui giochi, lo scenario o altro, è solo un tiro. Fortunatamente, quello è entrato, ci ha calmati, e dopo è stato solo ritmo, flusso e sicurezza e questo è tutto”. Compreso il suo gesto con le mani vicino al volto mimando chi va a dormire. Come dire agli avversari: ora è finita andate tutti a nanna. Lui può permetterselo. È un ragazzo che con un fisico normale ha rivoluzionato il basket inventandosi tiri impossibili anche quando davanti ha i 2,25 metri di Wembanyama.

Lebron James e Stephen Curry sono nati nello stesso ospedale di Akron nell’Ohio a poco più di tre anni di distanza, sono stati avversari per tutta la vita e finalmente si sono trovati compagni di squadra senza rubarsi i palloni a vicenda. Avevano in mente il bene comune. Erano qui per l’oro, non per loro dove un apostrofo fa tutta la differenza del mondo. “Abbiamo avuto il nostro momento”, ha detto LeBron James, che a 39 anni era il secondo giocatore più anziano alle Olimpiadi, il miglior marcatore di sempre della Nba e il Mvp del torneo olimpico 2024. “È un mondo pieno di basket. Tutti amano questo gioco. Speriamo solo di continuare a ispirare le persone in tutto il mondo”. Sono venuti, hanno dato spettacolo, hanno giocato con impegno e serietà. Non facciamo più paragoni con il 1992. Anche questo Dream Team ha fatto il suo dovere. Ma adesso gli Usa sanno che ai Giochi non potranno più scherzare. Ci vorranno sempre i migliori.

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