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L'eredità di Parigi

Il “sole che tornerà a sorgere” di Kipchoge è “l'unica speranza”. Anche per Gimbo

Mario Leone

Spento il braciere, rimangono accese tante storie di queste Olimpiadi. Quelle di atleti più o meno noti, spesso giovani, che hanno investito tutto su questo appuntamento

L’Italia ha vissuto prima con apprensione, poi con sconforto le vicende di Gianmarco Tamberi. Il saltatore azzurro, capitano della squadra e portabandiera, era tra i favoriti per la medaglia d’oro nel salto in alto. Due coliche renali gli hanno impedito di gareggiare nel pieno delle sue forze. Una piccolissima e bizzosa pietra che si sposta in un rene ha rovinato il suo grande appuntamento sportivo, forse l’ultimo così importante. Gimbo ha raccontato la situazione sui social in tempo reale, circondato dal grande affetto che si è guadagnato con il suo modo di vivere lo sport agonistico.
 

Ha invocato l’aiuto del pubblico con i gesti iperbolici ai quali ci ha abituato. Ha ripetuto che non meritava quanto si stava consumando nel suo corpo dolente, ha provato a ribellarsi a un fato incurante dei sacrifici fatti negli ultimi tre anni. Una vita assoggettata alle esigenze dell’atleta: durissimi allenamenti, socialità inesistente e cura maniacale del corpo. Quello di Tamberi si è spinto lungo territori pericolosi (ha fatto discutere la sua drastica perdita di peso, la presunta scarsa idratazione), esplorati in nome di un’ossessione. Gimbo è un grande talento, gli si vuol bene, forse dopo questi Giochi olimpici ancora di più. Le sue reazioni non hanno nascosto una fragilità che è quella un po’ di tutti noi: l’incapacità di stare di fronte a qualcosa di inaspettato che scombina i nostri programmi e le nostre pur giuste intenzioni. 


Tre protagonisti di questa Olimpiade hanno risposto all’atleta marchigiano, seppure in maniera del tutto involontaria. Il primo in ordine di tempo è stato Thomas Ceccon, medaglia d’oro nei 100 metri dorso a cui hanno ricordato come questa medaglia fosse per lui un’ossessione. Ancora fresco di premiazione e col capello bagnato ha ammesso: “Ho desiderato a lungo di raggiungere questo oro. Una volta arrivato ti chiedi: “E beh?”.


Dall’acqua di una piscina passiamo all’asfalto delle vie parigine, palcoscenico della maratona maschile; uno degli appuntamenti olimpici per eccellenza dove Eliud Kipchoge (l’unico uomo ad aver corso una maratona sotto le due ore se pur in un evento costruito e quindi non ufficiale) si è ritirato al trentesimo chilometro. “È stata dura – scrive il keniota in un lungo post su Facebook – perché avevo lavorato per questo appuntamento con devozione […] bisogna accettare quando l’albero della vita non ti concede i frutti del tuo lavoro […] Tornerò e il sole continuerà a splendere su di noi”. 


Quel sole che non si è mai spento nella vita di Julio Velasco. Il palazzetto tremava ancora per le schiacciate di Egonu & Co. e al cronista, che gli ricordava la finale di Atlanta del 1996, il ct rispondeva: “Non è vero che non ho mai avuto pace in questi 28 anni […] non mi sento come Baggio che dice che non ha pace perché ha sbagliato il rigore. Anche lui deve essere in pace, sono cose che succedono”. 


Succede di raggiungere un grande obiettivo e sentirne già l’illusorietà oppure il bisogno di conquistarne un altro. Succede di sbagliare un rigore o di essere tra i più forti corridori e “non averne più” durante la corsa più importante. Succede di essere la squadra dei fenomeni e perdere un titolo agognato per due soli punti. Succede di avere un malanno. Si chiama imprevisto. Per Eugenio Montale è l’“unica speranza”.  E se lo fosse anche per te, caro Gimbo?