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Quando il calciomercato non era solo voyeur da transfermarkt
Per la campagna acquisti ci voleva la fantasia e il coraggio degli esploratori. L’estate del 1984 fu un’orgia. Arrivarono da Maradona a Rummenigge. Branchini, houdini delle trattative: "Prima un calciatore dovevi andarlo a vedere, raccogliere informazioni, parlare con la famiglia. Ci volevano mesi"
Il calciomercato, un’avventura. Salivi su un aereo, andavi a cercare il talento, te ne innamoravi, lo corteggiavi, e magari te lo portavi a casa. Ci voleva la fantasia. E il coraggio, quello degli esploratori. Oggi li chiamiamo procuratori. Al massimo agenti. Ma quelli come Dario Canovi erano maghi: ti stupivano con i loro calciatori dal cilindro. “Il mercato era più divertente, dovevi spremere il cervello per arrivare a qualche risultato. C’era una minore conoscenza da parte dei tifosi. Con il web, adesso, puoi guardarti tutto”. Vuoi vedere che anche il calcio è un fatto di erotismo? Altro che voyeur da transfermarkt. Non sempre è stato così.
L’estate del 1984 fu un’orgia. Sì, di fenomeni. Maradona, e va beh. Ma anche: Rummenigge, Junior, Socrates, Stromberg, Briegel, Elkjaer, Wilkins, Hansi Müller. Cambiò la percezione di ciò che si poteva fare. E vedere. Per Giovanni Branchini, altro houdini delle trattative, quello fu un momento “in cui il movimento prendeva una dimensione diversa e l’aspetto del mercato internazionale assumeva un’importanza che prima non si era vissuta. Non solo in Italia, in generale”. Fino a metà degli anni Ottanta ci si basava sul prodotto interno. Italiani in Italia. Tuttalpiù i brasiliani, i cileni, gli argentini andavano in Spagna. Irlandesi e scozzesi in England. “Ma non erano fenomeni di massa”.
Ci sono momenti che cambiano lo sport. Ma sono le estati che ti cambiano la vita. A quarant’anni da quella del 1984 scorriamo ancora l’album delle figurine con nostalgia. E chi non l’ha vissuta si accontenta del mito. In questo caso sì: viva YouTube. In quegli anni si intrecciava tutto: la storia personale al grande giocatore. Silvio Pagliari, gentleman mica solo procuratore, lo sa bene. “Per me è stata un’estate importante. Avevo diciassette anni. I miei fratelli giocavano in A e in B, io capii di non avere quel talento. Dovevo fare altro per restare nel calcio. C’erano rapporti umani diversi. A quattordici anni chiamai il box del Perugia per sapere dove andava mio fratello. Mi finsi giornalista. Me lo dissero lo stesso, anche se si sentiva che ero un bambino”. Era l’Italia che riusciva a crescere. Almeno un po’: quell’anno l’inflazione scese (dal 21,2% registrato nel 1980 si arrivò al 6,3% del 1989). Si chiudeva col passato. E il calcio entrava nella modernità. Arrivarono 131 calciatori, operazioni dal valore totale di 17 miliardi di lire. 42 milioni di euro di oggi. Il Milan ne spese 3 per Wilkins. Il Napoli 13 per Maradona. La sera prima della notizia Canovi era a Ischia. “Il capoufficio stampa del Napoli ci raccontò tutto. Il giorno dopo, in edicola, andai a comprare il giornale. Costava 10 lire in più. Perché? Per comprare Maradona, scherzò l’edicolante”. Branchini era ancora solo un tifoso quando l’argentino sbarcò sotto il Vesuvio: “Segnò un’apertura, la fattibilità di qualcosa che nessuno aveva provato a fare e nessuno sapeva quanto fosse realizzabile. Aprì a una gamma di sogni e desideri repressi fino a quel momento”.
La rivoluzione arrivò con l’apertura delle frontiere, con la sentenza Bosman. A un certo punto è entrata la finanza. Zeman, visionario, lo aveva anticipato. “La ragione principale per cui ci sono così tanti soldi è che c’è molto denaro a disposizione dei mercati finanziari”, raccontò qualche anno fa Andrea Goldstein, economista OCSE. Manchester City, PSG, sceicchi, grandi gruppi. Un’indagine Aifi, pubblicata sul Sole24Ore, ha evidenziato che in Europa oltre un club su quattro nei maggiori 5 campionati ha un investitore finanziario. E le squadre con proprietà estera sono passate dal 10% del 2013 al 35% di oggi in Serie A. E sono cambiati gli uomini. Era un mercato, racconta ancora Canovi, “in cui c’erano grandi direttori sportivi e il presidente difficilmente pretendeva di fare il mercato. I ds avevano una grande competenza tecnica e un potere decisionale. I presidenti erano tifosi veri. Per i proprietari che vengono da fuori, da lontano, la rappresentazione del mondo del calcio è diversa. Viola spegneva le luci di Trigoria, l’ho visto io. Perché? Era casa sua, la trattava allo stesso modo”. Tutto si mischia, anche la figura dei procuratori è cambiata. “Noi agenti avevamo un buon numero di giocatori, ma facevamo l’interesse di una sola persona, che era il nostro calciatore. Adesso no. Ora le grandi cifre non vanno agli agenti veri e propri, ma agli intermediari. Anche i principi etici erano diversi: prendevamo una percentuale sul salario. Io ho avuto la fortuna di assistere 14 campioni del mondo. ma non ho mai avuto percentuali su vendita e acquisto”.
Non è vero che il mercato ha invaso i giornali, succedeva anche prima. È l’elenco di nomi a essere diventato un book meccanico. Tant’è che il numero si è alzato a dismisura: un anno fa, per dire, il mercato ha portato 338 giocatori, spese per quasi 1 miliardo di euro. Ma il numero di nomi apparsi sui quotidiani è più del doppio, quasi. Non c’è una chiusura. Pagliari assicura che “io mi sono sempre aggiornato, bisogna stare al passo, anche se ho 56 anni e le trattative spesso le fai con le pec”. Non tutti lavorano sul posto. Ora abbiamo l’IA, i video, i dati: il mercato è una faccenda di bit e skills. Aridatece l’avventura, please. “È che una volta si lavorava in modo diverso”, dice Branchini. “Un calciatore dovevi andarlo a vedere, raccogliere informazioni, parlare con la famiglia. Ci volevano mesi. Per Careca al Napoli affrontammo la trattativa con il San Paolo. Complicata. Il giorno prima del viaggio in Italia venni scoperto a una festa di giocatori paulisti. Nell’edizione di Placar, il settimanale sportivo più importante, uscì la mia foto grande così. Per loro ero l’impresario italiano che rubava i giocatori al Brasile. Ma io e Careca, ormai, eravamo già su un volo per l'Italia”.