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Il Foglio sportivo

Ecco come riparte la Serie A del grande cambiamento 

Marco Gaetani

Dietro all’Inter le principali rivali scudetto si sono trasformate cominciando da Fonseca, Motta e Conte

In questo campionato che riprende di soppiatto, che ci coglie quasi di sorpresa dopo una sbornia olimpica apparentemente infinita, la parola d’ordine sembra essere cambiamento. Tanto si è mosso alle spalle dell’Inter campione d’Italia, che invece prosegue dritta per la sua strada, immutabile ormai da anni: il 3-5-2 monolitico di Simone Inzaghi, i parametri zero di livello, l’occhio al bilancio per preservare equilibri labili e allo stesso tempo vincenti. Non poteva essere altrimenti: Juventus e Milan avevano forse concesso un anno di troppo a cicli parsi già conclusi un’estate fa, con Allegri e Pioli rimasti in sella più per inerzia che per effettiva convinzione; il Napoli, invece, ha vissuto un anno post-scudetto da cataclisma, in cui tutto quello che poteva andare storto ci è andato. E se prendiamo le prime dieci classificate della scorsa stagione, soltanto un’altra, oltre all’Inter, presenta in panchina lo stesso allenatore che aveva iniziato il campionato 2023-24: l’Atalanta, ovviamente, che con quel diavolo di un Gasperini ha cercato di imbrigliare, riuscendoci per 50 minuti buoni, un Real Madrid che in Supercoppa è apparso più galattico che mai in termini di stelle a disposizione, mentre la panchina nerazzurra assomigliava sinistramente a quella dell’Under 23 per via di infortuni e bizze di mercato. Per il resto, è cambiato tutto: l’altro timido cenno di continuità è rappresentato da Daniele De Rossi, arrivato in corsa al posto di Mourinho a metà gennaio e confermato dalla proprietà romanista per la prima stagione iniziata da allenatore a tutti gli effetti, fin dal ritiro e non da subentrante.
 

La Juventus ha scelto di cambiare rotta in maniera drastica, passando da Allegri a Thiago Motta: il livornese era stato sacrificato sull’altare del giochismo già nel 2019, quando gli venne preferito Maurizio Sarri, ma stavolta l’urgenza è del tutto diversa. Quella era una Juve che guardava all’obiettivo europeo e per quel motivo cercò di darsi un volto più accattivante; questa, invece, deve ritrovarsi e ripartire dopo tre anni vissuti pericolosamente, con una Coppa Italia in bacheca che fa morale e poco altro, i cui strascichi iracondi hanno finito comunque per presentare il conto ad Allegri. Motta è fin dai primi passi un allenatore dall’ambizione sfrenata, ha il piglio del tecnico destinato a fare grandi cose, il physique du role adeguato. Dovrà essere bravo a non farsi spaventare da un precedente che non promette bene – Gigi Maifredi, che a Torino si bruciò dopo aver portato un Bologna meno qualitativo di quello di Motta in Coppa Uefa, si illuse di poter lottare per lo scudetto anche senza aver avuto dal mercato l’agognato Dunga, l’equilibratore che a lungo aveva richiesto – e da un mercato che fin qui è stato in parte bloccato dagli esuberi: ma ha avuto carta bianca anche nelle esclusioni eccellenti e questo vuol dire che la sintonia con Giuntoli è totale, percezione che non si era invece mai avuta nel corso dell’ultimo anno allegriano. Si comincia col cartello “lavori in corso” ben visibile, di tasselli ne mancano ancora diversi, l’impressione è che servirà tempo, magari qualche mese, prima di vedere sul campo la Juve che Motta ha in mente.
 

Meno drastica la rivoluzione del Milan, forse perché Paulo Fonseca non è tipo da scaldare i cuori: ma non li scaldava, del resto, nemmeno Pioli al momento del suo arrivo, e per un largo brano della sua esperienza rossonera è stato invece quello che ballava al ritmo di “Pioli is on fire” con il tricolore sul petto. Quel che stupisce, nell’ultimo mese rossonero, è la centralità di Zlatan Ibrahimovic, tecnicamente nemmeno dirigente rossonero: eppure parla con lo stile tranchant che lo ha sempre contraddistinto, si espone, spiega strategie. Il Diavolo non fa il passo più lungo della gamba – si spiega così la rinuncia a Zirkzee, questione di soldi e di principio – e cerca una crescita sostenibile, anche se l’acquisto di uno come Morata fa pensare più all’instant team che a un orizzonte proiettato verso il futuro: un anno e qualche mese fa, nel commentare l’eliminazione dalla Champions per mano dell’Inter, Paolo Maldini difendeva la scelta di puntare su De Ketelaere e non su Dybala illustrando proprio l’idea di un progetto giovane e talentuoso. Se questa inversione basterà per dare l’assalto alla seconda stella lo dirà il campo.
 

A Napoli, invece, è cambiato praticamente tutto, ma non quanto avrebbe voluto Antonio Conte, non ancora almeno: l’elefante nella stanza indossa la maglia numero 9 ed è stato il protagonista principale dello scudetto spallettiano. Victor Osimhen ha da mesi in tasca un biglietto di sola andata, ma non c’è scritta la destinazione: De Laurentiis pretende i milioni che dice lui e nessuno sembra disposto a sborsarli, quindi Osimhen rimane lì, bloccando tutto, a cominciare da un Lukaku pronto all’ennesima incarnazione italiana, centravanti feticcio di ogni grande squadra italiana che si rispetti, come se non esistesse attaccante al di fuori di Romelu, in una pigrizia di idee ai limiti del preoccupante. Buongiorno è arrivato per puntellare una difesa a tratti tragica, rimasta orfana di Kim senza adeguati sostituti: servirà altro, deve ancora arrivare, il tecnico smania come da copione. Ma ama costruire da zero, si esalta nelle difficoltà, quasi ricerca la possibilità di partire come underdog.
 

Di questo gruppetto di inseguitrici fa certamente parte l’Atalanta, anche se il caso Koopmeiners non aiuta né tantomeno gli infortuni devastanti subiti da Scalvini e Scamacca, e ambisce a finirci dentro anche la Roma, che non ha cambiato in panchina ma lo ha fatto, e non poco, a livello di impostazione di mercato: l’arrivo del nuovo direttore sportivo Ghisolfi, sospinto dai fondi dei Friedkin, ha portato ad abbandonare la strada dell’usato molto costoso in termini di ingaggio (e possibilmente in prestito: il già citato Lukaku, Renato Sanches, Azmoun) e a batterne una totalmente diversa, con l’arrivo di gente come Dovbyk e Soulé, dagli ingaggi più contenuti anche se dal cartellino pesante. Tra le big tanto è cambiato e tanto ancora cambierà, perché la conformazione di metà agosto non è mai quella di inizio settembre. Il teatrino del mercato è ancora ben lontano dal sipario. E se vi mancano i brividi di Ceccon e Battocletti, è anche difficile darvi torto.

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