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Il foglio sportivo

Marocchino, il bastian contrario: “Ero distratto e pigro, ma per 5 partite ero il più forte d'Europa”

Antonello Sette

Una storia immensa lungo gli anni più importanti passati sul campo, fra vittorie, vizi e virtù. Il ribelle del calcio si racconta

“Ho avuto la fortuna di nascere in un’epoca in cui c’erano ancora gli oratori e potevi giocare liberamente davanti alla chiesetta di Tronzano Vercellese con un pallone pieno zeppo di cuciture. È lì che credo di aver imparato a restare in piedi, perché nel malaugurato caso ti capitasse di perdere l’equilibrio, incespicando sul gradino del sagrato e rovinando frontalmente sui sanpietrini o, in alternativa, di abbracciare con le ginocchia una panchina, erano dolori che bisogna provare per capirli. L’altra mia fortuna è stata l’attesa. Allora non c’erano i telefonini e le televisioni con il calcio acceso a tutte le ore. Si andava a dormire subito dopo Carosello e si viveva di desideri. Che erano forti e duraturi, come un’impronta sulla pelle. Se, poi, qualcuno ti portava a vedere la partita dell’iniziazione in uno stadio vero, era un’emozione che ti attanagliava la pancia e il cuore. Nel mio caso specifico, uno del mio paese, che aveva il biglietto del treno gratuito, perché di mestiere faceva il ferroviere, mi portò a vedere la Juventus di Omar Sivori, quando avevo appena otto anni e davanti a me una vita intera da sognare. Era un calcio che aveva qualcosa di romantico anche per un ragazzino senza malizia e ignaro di tutto, come ero io. E c’erano le edicole con più figurine Panini che giornali. Quelle che mia nonna acquistava a dieci lire a bustina. Erano santini laici che andavano infinitamente più a ruba di quelli sacrosanti, che riempivano le panchine interne della chiesetta di Tronzano Vercellese. I sogni nella vita, se non sono tutto, pochissimo ci manca”.


È un fiume in piena Domenico Marocchino, un fuoriclasse del pallone bianco con gli esagoni neri, che con la Juventus ha vinto da protagonista due scudetti e una Coppa Italia, senza mai smarrire il disincanto e l’incoscienza di chi pensa che la vita non è tutta lì e che una partita è più bella se ti defili, là dove hanno conficcato una bandierina.


“Abitavamo in una cascina. Quelle spartane di una volta, due stanze e pochi servizi, che non hanno niente a vedere con quelle rivisitate dai ricchi per il loro esibito piacere. Mio padre non sapeva neppure che giocassi a pallone. Fu avvertito da uno zio, quando avevo già compiuto dodici anni. Venne finalmente a vedermi e prese atto che un po’ ci sapevo fare, anche se non riusciva a fare a meno di pensare che, esattamente come a scuola, avrei potuto fare molto di più. Dalla cascina mi spedirono in un collegio dei Salesiani a Lombriasco, dove mi videro alcuni lungimiranti osservatori della Juventus, che, sia gloria a tutti loro, proposero ai miei genitori di portarmi a Torino per un provino. Mi ritrovai dentro una partitella che si protrasse, almeno per me, per lo spazio effimero di un quarto d’ora, dopodiché fui invitato a uscire da quelli che erano senza divisa da gioco a bordo campo. Pensai che fosse la fine di tutto e, invece, mi dissero di correre in sede con i miei genitori per firmare il cartellino. Il caso volle che ad annunciarmi la lieta novella fosse uno destinato a fare, nel suo campo, una carriera luminosa almeno quanto la mia. A dirmi “ce l’hai fatta” fu nientepopodimeno che Italo Allodi in carne e ossa. Iniziò così la mia avventura a righe bianco e nere. Per continuare parallelamente gli studi, cambiai, seduta stante, collegio. Da Lombriasco a Torino il passo fu lungo e breve. Ancora salesiani. Ancora campanelle e pre campanelle a scandire ogni battito del tempo.

 

Ero stufo di quelle campanelle, di ogni protocollo disciplinare, al punto d’arrivare sul pullman che mi doveva portare al campo d’allenamento, dopo che aveva già fatto per due volte l’appello. Ricordo che ogni sabato, tornando faticosamente a casa, prima di ricongiungermi con mio padre davanti alla stazione, mi fermavo ogni volta al bar Marconi, che per la storia è stato il primo Inter Club di sempre fuori dalla cerchia di Milano. C’era in bella vista la gigantografia della Grande Inter e, quando ho conosciuto dal vivo Mazzola, Facchetti e Suarez, ricordo di aver detto loro che io li conoscevo bene da quando da ragazzino mi fermavo tutte le settimane ad ammirarli... Ho fatto tutta la trafila nelle giovanili della Juventus, perdendo una finale Primavera, giocata insieme a Gian Piero Gasperini, contro la Lazio di Giordano e Manfredonia. La gavetta, che allora toccava a tutti, quasi un obbligo come il servizio militare, la svolsi diligentemente a Cremona e a Bergamo con l’Atalanta. Farsi le ossa era una prassi a cui non si poteva sottrarre nessuno. Neppure Giampiero Boniperti, che avevo conosciuto all’età di undici anni o poco più, quando lo avevano mandato, per fare esperienza e arricchire il curriculum, a gestire la più grande cascina del vercellese. Si fermava al mio paese per mangiare qualcosa di non banale. Quando anni dopo mi rivide con la maglia, che era stata la sua vita rimase più stupito che sorpreso. E forse, aggiungo, fu per questo che quando c’era da firmare un contratto sviava regolarmente il discorso, parlando, più che di soldi, di mondine e di risaie. Era un altro mondo... Quando ero nel settore giovanile una delle più grandi soddisfazioni era sformare gli scarpini fabbricati su misura da un certo Magrini a uso e consumo di quelli della prima squadra”.


La sua epopea è targata Juventus. Quattro anni di gloria, bruciati in fretta, come ogni cosa nella sua vita…

“Ero un giocatore atipico e non solo perché, come diceva mio padre, ero sì bravissimo, ma con un’autonomia ristretta a un tempo solo. Ero naif, estemporaneo, volubile, disattento, pigro. Dicono che avrei potuto fare di più. Se guardiamo alle potenzialità è sicuramente vero. Se, invece, prendiamo come riferimento il mio cervello, che trascurava il campo e si spostava anche metaforicamente dal campo alla bandierina del calcio d’angolo, ho fatto tutto quello che il mio istinto e la mia estemporanea follia mi hanno consentito. Io c’ero e non c’ero, ma per mia fortuna avevo dei picchi. Come dice il mio amico Carlo Osti, per cinque partite ero il più forte d’Europa, per cinque il più forte d’Italia, per altre cinque un buon giocatore e per tutte le altre uno da rinchiudere in una cantina buia. E poi non dimentichi che io sarei stato più bravo se mi avessero fatto giocare a sinistra, ma purtroppo allora un esterno aveva a disposizione solo la fascia destra per scorrazzare a suo piacimento. Era come essere costretto giocare fuori casa, perché la mia era ubicata nella via dirimpettaia”.


Di quella Juventus straripante di campioni a chi era più legato tecnicamente e umanamente?

Ho avuto la fortuna di giocare con a fianco l’enciclopedia del calcio: Zoff, Scirea, Bettega, Platini, Tardelli, Causio, Brady e Furino. Mi riesce difficile dirle con chi calcisticamente e umanamente mi sono trovato meglio. Se proprio devo fare dei nomi, la mia preferenza va a Gaetano Scirea e a Paolo Rossi. Erano la personificazione della classe pura e, come tale, mai ostentata. Da loro non ho mai sentito dire: “Io ho fatto. Io ho vinto. Io sono”. Un altro che ho molto amato è stato Nello Governato, che era stato un idolo dei tifosi laziali, tanto che lo avevano soprannominato il professore. Una persona di eccezionale spessore. Non potrò mai dimenticare quella volta che dovevamo andare a giocare a Catania ed Eraldo Pecci non ne voleva sapere di salire con gli altri sull’aereo. Detto fatto, partimmo in macchina, con Nello alla guida. Arrivammo a destinazione un giorno prima del resto della squadra. Ingannammo l’attesa andando a vedere i Bronzi di Riace e mangiando dello strepitoso pesce ad Acitrezza, in un ristorante a picco sul mare. Momenti bellissimi di un tempo irrimediabilmente diverso. E perduto”.


C’è un Marocchino nel calcio del 2024?
“Ero un tornante che non disdegnava di giocare anche con le spalle alla porta. Al tempo d’oggi mi sembra sia una specie estinta. Uno che mi piaceva tanto è stato, a suo tempo, Gianluigi Lentini”.


Le piace il calcio di oggi o preferisci quello di una volta?
Sono due mondi diametralmente diversi. È un po’ come leggere un racconto su carta o sull’iPad. Io sono ancora per il cartaceo, ma capisco che anche il calcio dell’iPad mantiene un suo fascino, a dispetto di tutto e di tutti. Quello che è cambiato è soprattutto quello che il calciatore vede da dentro il campo durante una partita. Una volta vedeva gli spazi. Oggi non li vede più perché davanti a sé, al posto degli spazi, c’è una grata, che chiamano pomposamente zona”.


Come vive i suoi sessantasette anni?
“Mi torna in mente una famosa frase di Picasso: “Ci vuole molto tempo per imparare a diventare giovani”. Mi sto allenando non solo a restare giovane, ma a provare a diventarlo. Cerco ancora un po’ di romanticismo e spazi vuoti da riempire. Altrimenti mi toccherebbe fare il pensionato, per cui è sempre domenica. Un’amara ed eterna domenica, con la televisione perennemente accesa e un’infinità di partite da consumare insieme al tempo che passa. Io di partite, se devo essere sincero, ne vedo pochissime, giusto quelle minime che mi servono per argomentare il mio lavoro di opinionista alla radio e in tv, dove, imperterrito, racconto le mie favole più o meno surreali”.


A proposito di favole, le donne hanno ancora un ruolo centrale nella sua vita?
“Con gli anni cambiano le prospettive e le modalità con cui ti rapporti a loro. Però, restano importanti se non altro perché sono infinitamente meno noiose degli uomini”.


All’epoca le amava più del calcio?
“Ero sempre alla ricerca di una giusta combinazione. Amavo e inseguivo, questo sì, la notte più di ogni altra cosa. Ho sempre pensato, che già al momento di nascere, fossi posizionato nell’utero di mia madre in un modo diverso da tutti gli altri. Io sono stato, e rimango, un Bastian Contrario per destino e vocazione. Ho smesso di fumare quando ho smesso di giocare. Mangio il secondo piatto prima del primo. Leggo i giornali cominciando da dietro. Mi alleno adesso più di quanto mi allenassi allora. È un istinto insopprimibile, non una filosofia pensata ed elaborata a tavolino. Sono una persona curiosa. E uno studioso non solo di quanto accade dalle parti della bandierina, ma a tutto campo. Se mi sono qualche volta distratto, è perché mi capitava di studiare qualcosa che con il calcio aveva poco a che fare. In compenso, non mi sono perso niente e la vita seguito a respirarla sino in fondo. Convinto come sono, che non è mai troppo tardi per diventare giovani e non morire dentro”.

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