“Mai più è ora”: lo striscione dei giocatori del Werder Brema il 27 gennaio scorso (Getty Images) 

la storia

Due popoli, una passione: con il calcio in Germania si combatte l'antisemitismo

Daniela Santus

Mifalot è un progetto israeliano che mira a costruire la pace in medio oriente attraverso lo sport. Ogni anno, dal 1997, tanti programmi che coinvolgono anche giovani palestinesi e giordani. Un solo partner in occidente: la Germania

In questi giorni d’agosto anche in Germania fa caldo: si superano i 30 gradi, le fontane – persino quelle storiche – si trasformano in piscine per i giochi d’acqua dei bimbi e gli spazi verdi cittadini si riempiono. Io stessa mi sono ritrovata a cercare un angolo di frescura – oltre che un Biergarten (birreria all’aperto) dove poter sorseggiare una Weissbier ghiacciata – nel parco di Leibnitzplatz, non lontano dalla Hochschule di Brema (Università di Scienze applicate) dove avevo appena visitato una mostra. Tuttavia non sono qui per raccontarvi della birra, né della mostra.

Mentre mi avvicinavo al Biergarten mi sono imbattuta in un grande manifesto, teso tra due alberi, con su scritto: “Bring Hersh home”. Hersh Goldberg-Polin è uno dei giovani che sono stati attaccati da Hamas la mattina del 7 ottobre al festival musicale Nova, vicino al confine con la Striscia di Gaza. Insieme a molti altri, Hersh – che nell’attacco ha perso un braccio – è stato portato in ostaggio a Gaza. E’ un sostenitore dell’Hapoel Jerusalem e del Werder Brema. Ciò che sembra insolito ha una lunga storia, basata su uno scambio di giovani tifosi del Werder e tifosi israeliani. In parte ne avevamo parlato su queste pagine il 18 marzo scorso.

Procedendo nella passeggiata, ho incontrato vari gazebo con le immagini dei rapiti, con le testimonianze dei famigliari, con le foto della gigantografia di Hersh che si trova all’esterno dello stadio di Brema. Mi sono accomodata sul prato, insieme a un centinaio di altre persone che ascoltavano una conferenza: si stava parlando di come lo sport possa essere utile a combattere l’antisemitismo. Interessante. Tra i relatori c’erano Arne Scholz (del Werder Bremen), Felix Tamsut (giornalista) e Irina Drabkina (coordinatrice degli scambi tra tifosi). Già mi era noto il grande lavoro educativo che, in Germania, si sta portando avanti per combattere l’antisemitismo, non ero assolutamente consapevole invece di quanto anche lo sport fosse partecipe. Sono così venuta a conoscenza dell’assidua collaborazione tra il Werder Brema e Mifalot. Questo è il primo punto su cui vorrei porre l’attenzione.

Mifalot è un progetto israeliano che mira a costruire la pace in medio oriente attraverso lo sport, in generale, e il calcio in particolare. Da un’idea dell’Hapoel Tel Aviv Football Club, dal 1997 a oggi Mifalot gestisce centinaia di progetti sociali in 250 città e villaggi in tutto il paese. Concentrandosi sui più svantaggiati (arabi, beduini, nuovi immigrati in condizione di povertà) e sulle aree periferiche dello Stato di Israele, Mifalot riesce a interagire con oltre 30.000 bambini e bambine, adolescenti e giovani adulti, anche con problematiche psicofisiche, ogni anno. Lo scopo principale è quello di rispondere ai bisogni educativi e sociali dei bambini e dei giovani, fornendo loro gli strumenti per imparare, crescere, eccellere e sviluppare sé stessi e la loro comunità. Nel corso delle varie attività viene sempre fortemente sostenuta una cultura di pace, diversità, coesistenza, tolleranza e rispetto reciproco. Ogni anno, Mifalot gestisce oltre 300 programmi che si rivolgono anche al di fuori d’Israele e più specificamente ai Territori palestinesi e alla Giordania, oltre che attività internazionali che coinvolgono paesi come il Camerun, il Ruanda, l’Angola, il Benin, India, Haiti e la Germania. Proprio così, non c’è nessun altro partner occidentale che non sia la Germania.

Oggi Mifalot è il più grande progetto di sport per lo sviluppo e la pace dell’intera regione, nonostante ci sia ancora chi – in Italia e non soltanto – crede che in Israele esista l’apartheid. Gli stessi giocatori dell’Hapoel Tel Aviv hanno impegni contrattuali che li vincolano alle attività di Mifalot, mentre i giovani e i bimbi che aderiscono hanno anche biglietti gratuiti per le partite. In fondo la “ricetta” per la pace è semplice: si tratta di promuovere una cultura di coesistenza e rispetto tra tutti i cittadini d’Israele, oltre che tra israeliani, palestinesi e giordani. Come si legge sul sito di Mifalot: “Il calcio supera i divari sociali, religiosi ed etnici. E’ un linguaggio internazionale amato da tutti, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione, dall’etnia o dal sesso. Diamo alle parti opposte l’opportunità di giocare, interagire e lavorare insieme come una squadra, non gli uni contro gli altri”. Questo aiuta ad abbattere gli stereotipi e a costruire la fiducia – dentro e fuori dal campo – tra diversi gruppi in Israele e tra israeliani, palestinesi e giordani. Inoltre, il fatto di giocare insieme ed essere squadra, permette l’acquisizione di competenze linguistiche e di alfabetizzazione che si sono rivelate assolutamente indispensabili quando è stato necessario favorire l’integrazione sociale dei nuovi immigrati dall’Etiopia e dall’ex Unione Sovietica e ora si rivela un utile strumento anche per i rifugiati/richiedenti asilo provenienti da vari paesi.

La Germania che, a causa del suo passato, ha moltiplicato gli sforzi nella lotta all’antisemitismo, ha colto appieno l’importanza e la valenza educativa di questi progetti incominciando a invitare le squadre di Mifalot a vari eventi calcistici come, ad esempio, la “One Nation Cup” che si svolge a Brema, o il torneo “Discover Football” che si tiene a Berlino. Le squadre di Mifalot rappresentano sempre delegazioni multinazionali e multireligiose, i cui giocatori professano le tre fedi monoteistiche: ebraismo, cristianesimo e islam. I sostenitori “dell’apartheid israeliano”, che pontificano dalla Columbia University o dalle aule universitarie europee, potrebbero spiegarmi se tutto questo sarebbe stato possibile in Sudafrica o se sarebbe possibile nello Yemen o in Sudan?

Di fatto, però, la speciale amicizia tra tifosi israeliani – soprattutto dell’Hapoel Jerusalem e del Maccabi Haifa – e tifosi del Werder Brema ha radici trentennali, da quando cioè sono cominciati i viaggi di “scambio” tra tifosi. Queste trasferte hanno permesso di stabilire solidi contatti tra i tifosi di Brema, Gerusalemme, Haifa e Tel Aviv. Sin dall’inizio lo scopo principale è stato quello di abbattere i pregiudizi reciproci. In particolare, per i tedeschi, si trattava di poter rendere Israele come paese e società tangibili e comprensibili. E in questo i tifosi di Brema hanno avuto successo. Lo scambio regolare ha avuto un impatto sull’intera scena dei fan, tanto che ora i tifosi tedeschi e quelli israeliani sono in contatto tra loro e si fanno visita anche indipendentemente dallo scambio organizzato. Quest’anno è stato fondato il primo fan club del Werder Bremen in Israele, anche se il vero e proprio fattore scatenante per la sua creazione ha lo sfondo tragico dell’attacco terroristico antisemita del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas. Immediatamente dopo quei fatti, la società sportiva del Werder e i suoi tifosi non soltanto hanno preso parte alle manifestazioni di cordoglio e solidarietà che si sono svolte in tutta la Germania, ma hanno cercato di ottenere specifiche informazioni sulla situazione dei due rapiti, simpatizzanti del Werder, Hersh Goldberg-Polin e Inbar Haiman. Tristemente si è poi saputo che quest’ultima era stata uccisa da Hamas, che ne detiene ancora il corpo. Questo impegno è comunque stato percepito in modo estremamente positivo in Israele. “Il sostegno senza precedenti ed entusiasmante da parte dei tifosi e del club ha innescato un’ondata di interesse per il club, le sue azioni e i suoi valori”, ha detto Hanoch Chen, uno dei fondatori del fan club, a Werder.de.

Di fatto l’impegno del Werder Bremen non è soltanto rivolto a Hersh, si tratta piuttosto di un’attenzione educativa particolare e coinvolgente. Da un lato si guarda a un pubblico adulto, anche non prettamente tedesco, attraverso conferenze o mostre, come quella in cui mi sono casualmente imbattuta e che presentava, all’interno di un parco cittadino, opere di artisti vittime del terrore del 7 ottobre (tra cui opere di Inbar Haiman), nonché opere che affrontavano il 7 ottobre e le sue (ri)traumatizzanti conseguenze. D’altro lato fa proprio l’insegnamento di Mifalot e offre programmi sportivi gratuiti alle scuole di Brema. Non va dimenticato, anche se al lettore italiano può apparire strano, che la povertà è un problema crescente in Germania. E’ stato calcolato che, nel 2022, ben 17,3 milioni di persone fossero a rischio di povertà o esclusione sociale. Si tratta del 20,9 per cento della popolazione, come riferisce l’Ufficio federale di statistica e il quadro non è migliorato. Anzi. Contrariamente a quanto siamo soliti immaginare, la situazione lavorativa non è eccellente. Certo, i dati ci dicono che nel 2023 il tasso di disoccupazione in Germania è stato, in media, intorno al 5,7 per cento, ma i dati sono estremamente variabili a seconda del Land, inoltre è da notare che queste percentuali vanno lette conoscendo il metodo tedesco di rilevazione dei dati. Infatti è sufficiente che le persone, il giorno dell’indagine, stiano seguendo un corso online, per non fare che un esempio, grazie al quale imparare a redigere un cv, per non rientrare nella percentuale dei disoccupati. Pertanto si tratta di cifre che vanno viste nettamente al rialzo. Basti pensare che Brema, Land di fortissima immigrazione non europea, è risultata, secondo le più recenti rilevazioni statistiche, la regione più povera di tutta la Germania con un tasso di povertà del 33 per cento nella seconda città della regione: Bremerhaven. 
Da ciò si può ben immaginare come povertà e immigrazione dai paesi islamici potrebbero dare il via a un problema di antisemitismo di difficile gestione. Di pochi giorni fa è la testimonianza di Wolfgang Büscher, portavoce dell’organizzazione umanitaria Die Arche con sedi a Berlino, Amburgo, Monaco, Düsseldorf, che ha parlato – in un’intervista al quotidiano Bild – dell’aumento della violenza tra i giovani, anche bambini di soli 11 anni, che vanno in giro a fare risse con i coltelli. In Germania, Die Arche si prende cura di più di 7.000 bambini. Eppure un assistente sociale, sempre al Bild ha detto che “i sistemi di aiuto non funzionano più. L’integrazione è fallita”. 

Nel frattempo non posso fare a meno di notare come – proprio nel Land più povero della Germania – mamme velate, con il loro seguito di pargoli, si soffermino a guardare le immagini del 7 ottobre esposte nel parco e, mentre cullano l’ultimo nato, ascoltino le parole sulle attività del Werder Bremen, nelle scuole e in collaborazione con Mifalot. Nessuna contro-manifestazione, nessuna bandiera palestinese.

Anche le attività del Werder, come quelle di Mifalot, sono gratuite e portano lo sport tra i bambini a partire dalla scuola dell’infanzia, permettendo loro di crescere con mentalità rispettosa della diversità, senza arretrare sui valori. In fondo, si potrebbe dire, non ci vuole molto: le stesse cose potrebbero farle la Juventus, il Milan, il Napoli o la Roma per non fare che alcuni esempi. Per certo questo è il regalo che l’Hapoel Tel Aviv (gemellata con il St. Pauli di Amburgo), l’Hapoel Jerusalem e il Maccabi Haifa, attraverso i progetti di Mifalot, hanno fatto a Brema: insegnare come il calcio possa unire anche in mezzo alle difficoltà, come lo sport possa abbattere i pregiudizi e liberarci – attraverso la conoscenza – dall’antisemitismo. Ma non è sufficiente: la scuola non può girare lo sguardo, i docenti non possono lasciarsi incantare dalle immagini dell’intelligenza artificiale, i media non possono diventare ripetitori di Hamas, i politici non possono continuare a fare gli incantatori di serpenti. Si promuovano scambi, sull’esempio di Mifalot, si regali ai nostri giovani la possibilità di conoscere la realtà. 

Da qui deriva il secondo aspetto su cui riflettere e che ci coinvolge da vicino. Quale vantaggio deriva, ai palestinesi o ai giovani occidentali, dal mantenere l’immagine dell’ebreo come quella di ladro di terra e aggressore, quando sarebbe più semplice spiegare la storia per comprendere? Certo occorrerebbe che i docenti, i giornalisti, i politici fossero messi in grado di affinare la conoscenza: troppi cadono ingenuamente nelle fake news abilmente create da una regia che ci vuole deboli, pigri e incapaci di autonome riflessioni. Forse è troppo tardi, forse siamo talmente obnubilati da fantasiose narrazioni, che scambiamo per realtà, da non essere neppure più in grado di riconoscere il falso quando è palese. Penso, restando in ambito sportivo, al post divenuto virale sui social anche tra tanti colleghi, che affermava: “Solo 15 su circa 400 atleti olimpici palestinesi sono usciti vivi da Gaza quest’anno! Yazan Al Bawabb ha onorato il suo paese finendo terzo nel nuoto maschile 100 metri dorso Heat 1. Purtroppo non è bastato il tempo per qualificarsi alle semifinali, ma ha reso comunque molto orgoglioso il suo paese”. Il tutto corredato da bandiera palestinese e cuoricino. Purtroppo la guerra, soprattutto grazie all’uso dei civili come scudi umani da parte di Hamas, ha ucciso molti innocenti e per certo avrà ucciso degli atleti, eppure persino un’informazione così innocua nascondeva l’inganno.

Innanzi tutto la Palestina partecipa ai Giochi Olimpici dal 1996; quell’anno i partecipanti palestinesi furono due. Sempre due sono stati gli atleti palestinesi alle olimpiadi del 2000; tre nel 2004 e quattro nel 2008. Nel 2012 gli atleti palestinesi sono cinque, nel 2016 sei, nel 2020 cinque e ben otto nel 2024. Così come Hamas ha la triste abitudine di moltiplicare i morti, il post in questione non soltanto ha moltiplicato gli atleti (contandone quindici, invece che otto), ma addirittura ha ipotizzato che – se non fosse stato per la guerra – avrebbero partecipato 400 atleti. In altre parole, un territorio grande quanto una provincia italiana (ampiezza di 6.025 kmq), avrebbe avuto ben 400 atleti olimpici: l’Italia (ampiezza di 302.073 kmq) ne ha presentati 402. L’inganno tuttavia non è rappresentato soltanto dai numeri. Il menzionato nuotatore palestinese Al-Bawwab, che si definisce “per metà italiano” perché – di fatto – ha cittadinanza italiana, nasce in Arabia Saudita da genitori palestinesi, entrambi con cittadinanza italiana, acquisita dopo una lunga permanenza nel nostro paese. Il padre, Rashad, si era stabilito come rifugiato a Genova e lì si era laureato in Ingegneria, prima di trasferirsi con la famiglia a Dubai (Emirati Arabi) e aprire un’azienda di arredamento. Al-Bawwab è cresciuto a Dubai, anche se successivamente si è trasferito prima ad Ottawa (Canada), dove afferma di essersi laureato in Ingegneria aerospaziale e, poi, nei Paesi Bassi. Attualmente frequenta un master in Management sportivo internazionale all’Università di Londra. Nessun desiderio di studiare o stabilirsi in Palestina eppure Al-Bawwab si è qualificato per la Palestina alle Olimpiadi di Parigi del 2024, dove ha gareggiato nei 100 metri dorso, arrivando 43º nelle batterie. Quarantatreesimo su quarantasei nuotatori, pertanto terz’ultimo e non terzo. E’ evidente che i numeri creino qualche problema ai simpatizzanti di Hamas. Riportato tutto in termini reali, la domanda resta la stessa: cosa si crede di ottenere spargendo veleno su Israele e nascondendo la realtà? Una realtà che, tra le persone comuni in Israele, è sempre meno rappresentata da Netanyahu, Ben Gvir o Smotrich i cui migliori alleati, per restare a galla, sono i costanti venti di guerra provenienti dall’Iran, i razzi dal Libano, il trattamento inumano degli ostaggi a Gaza. 

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