Antonio Conte - foto Ansa

Il Foglio sportivo

Ecco qual è il tranello di Antonio Conte

Giuseppe Pastore

L’anomalia del Napoli non è proprio l’anno dello scudetto, checché ne dica l'allenatore

"Qui c’è il tranello grosso di due anni fa, che confonde le idee e butta fumo negli occhi alla gente".
 

Nella generale ondata di benevolenza che circonda le prime faticose settimane di Antonio Conte alla guida del Napoli, c’è una frase – pronunciata nella conferenza precedente al disastro di Verona – che forse è passata un po’ inosservata. Nella necessità di impalcare la classica sceneggiatura di lacrime e sangue, Conte è arrivato a definire un “tranello” la più gloriosa stagione della storia del club, superiore per media punti anche ai due scudetti di Maradona. Un Napoli moderno, spettacolare, sostenibile come va di moda dire oggi, sostanziale campione d’Italia già a febbraio, cui mancarono solo malizia e fortuna per tentare il colpaccio in Champions League. Il punto più alto del ventennio di De Laurentiis derubricato a incidente di percorso, un trompe-l’œil che “confonde le idee” perché secondo Conte la vera dimensione del Napoli è quella dello scorso anno. Allora sarà stato intimamente contento, l’ammiraglio Conte, di vedere questa ciurma di brocchi & sopravvalutati naufragare al Bentegodi, con nove titolari su undici che erano stati campioni d’Italia 2023: avete visto? Lo scudetto è stato un tranello.
 

Come a volte succede nelle narrazioni degli allenatori che amano porre sé stessi come uomini soli al comando, la realtà è un po’ diversa. Lo scudetto 2023 è stato l’oggettivo punto esclamativo di quattordici stagioni consecutive concluse con una qualificazione alle Coppe. La celebrazione del metodo De Laurentiis, presidente mercantile ma non certo sprovveduto, partito quell’estate dalle apparenti ceneri delle separazioni da Mertens, Insigne e Koulibaly per lavorare a fari spenti con la regia di Spalletti e Giuntoli. L’anomalia è stato il disastro successivo, non quell’impresa cesellata con coerenza e regolarità nell’arco di un decennio. L’anomalia, diremmo, è in un presidente attualmente travolto da un insolito destino, costretto ad aggrapparsi all’uomo forte da assecondare, lui che gli allenatori li ha sempre voluti affrontare, se è il caso anche pungolandoli dialetticamente. E difatti il loquace ADL ha taciuto anche davanti a questa piccola insolenza, limitandosi pochi giorni dopo a twittare il benvenuto a David Neres surrealmente immortalato mentre metteva una firma su un foglio interamente bianco. La congiuntura gli consiglia prudenza, procedendo rasente ai muri, evidentemente colto “col sorcio in bocca” per il gigantesco errore di valutazione sulla cessione di Osimhen.
 

Salpato il 5 giugno, Conte ha già superato la boa dei famigerati 44 giorni di Brian Clough al Leeds: dopo il tracollo di Verona, il mare si metterà in discesa. Il suo Napoli si riprenderà. Le sue doti da assaltatore simil-Vidal non servirebbero a questa squadra del tutto priva di cazzimma offensiva? Ma il fideismo nell’uomo forte è quanto mai fuori moda. Quando parliamo dei grandi allenatori un po’ agé, lo facciamo sempre volgendo lo sguardo al passato, sbandierandone lo sfavillante curriculum. Ma non serve Julio Velasco per constatare che ormai conta solo il “qui e ora”: lo dimostra per esempio il triennio dell’Allegri-bis alla Juventus, assai più opaco della sua prima gestione. Dal vecchio Max al lupo Mourinho finito a ingrigire in Turchia, non è più tempo per guru e para-guru: le difficoltà di gestione e l’obbligo di “scurdars’ ‘o passat’” sono una costante che ormai ha raggiunto i piani altissimi e riguarda tutti i grandi club, a parte un paio di eccezioni. E difatti i due più saggi di tutti, vista la mala parata, allenano il Manchester City e il Real Madrid.

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