Henry Rono vince i 3000 metri, 1978 - foto LaPresse

Il Foglio sportivo

Henry Rono e la sua vita smarrita per 25 dollari

Fabio Tavelli

L'incredibile storia dell'atleta keniano, un fuoriclasse da quattro record del mondo in 81 giorni bruciato dal "timing" e dal razzismo americano del suo tempo

Erano passati 8 anni e qualcuno ragionevolmente poteva essersi già dimenticato di quel che Henry Rono aveva fatto in soli 81 giorni nel 1978. Certo, a Hackensack (contea di Bergen, stato del New Jersey a una distanza non eccessiva da New York), come altrove non era impossibile incontrare un profondo conoscitore del mondo dell’atletica esattamente come altri che non sapevano andare oltre la triade basket-football-baseball. Però… però Henry Rono non lo puoi confondere, Henry Rono è stato uno che in, appunto, 81 giorni ha demolito quattro, quattro!, record del mondo. 5.000 metri in aprile a Berkeley, 3.000 siepi un mese dopo a Seattle, poi altro record nei 10.000 a Vienna e infine in giugno giù anche il limite nei 3.000 piani.
 

Se ne sarà parlato anche negli Stati Uniti, c’è da immaginare. Anche perché Henry Rono era nato in Kenya, ma negli States aveva studiato (Università di Seattle) e conservava un legame forte con quella terra. Al punto di viverci, anche se sempre con in testa il desiderio di tornare a casa. E nel frattempo di aiutare chi dal Kenya non era riuscito a partire e a quel punto tentava di vivere nel miglior modo possibile sfruttando anche il successo di un parente che si era affermato nella disciplina in cui presto o tardi tutti i kenioti maschi avrebbero avuto a che fare. Ovvero la corsa.
 

Era con l’intento di mandare soldi a casa che Henry aveva deciso di andare in banca a depositare un assegno che aveva incassato qualche giorno prima dopo aver partecipato a una maratona. Rono non era più quello del 1978, i migliori anni erano passati anche per lui e mantenere la forma fisica per stracciare tutti non era più l’articolo 1 del suo decalogo quotidiano. Rono stava iniziando, forse senza nemmeno rendersene conto, una parabola discendente che come spesso accade si nasconde nelle pieghe sinuose dei piaceri della vita che durante la fase “allenamento-allenamento-allenamento” l’atleta sente solo nominare, ma non pratica.
 

Rono rimaneva però un signor corridore e molti organizzatori lo ingaggiavano per partecipare a competizioni dove in tanti si iscrivevano anche solo per il piacere di gareggiare con l’uomo dei quattro record del mondo demoliti in 81 giorni. Una cosa era davvero mancata a Rono nella fase più luminosa della sua carriera: la consacrazione olimpica. Ci fossero stati i Giochi nel 1978 nemmeno sarebbe stata quotata la sua quaterna. E invece i Giochi arrivarono nel 1980, un anno dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’amministrazione Carter chiese a tutti i paesi “amici” di disertare quei Giochi e il Kenya, insieme ad altri 64, rispose sissignore.
 

Fu proprio il timing il nemico numero uno di Rono. Il Kenya aveva già deciso di boicottare i Giochi Olimpici anche a Montreal nel 1976. Il motivo, che aveva unito per una volta 27 paesi africani, era per protestare contro l’ammissione ai Giochi della Nuova Zelanda che con i suoi All Blacks aveva giocato una partita di rugby in Sudafrica durante l’odioso periodo dell’apartheid. Periodo che aveva portato il Cio a escludere il Sudafrica da tutte le competizioni e di riflesso anche coloro che avessero disputato incontri con loro. Rono dunque non partecipò mai ad alcuna Olimpiade e nel suo palmares rimangono quattro ori, due ai Giochi Panamericani di Algeri (1.000 piani e 3.000 siepi) e due ai Giochi del Commonwealth di Edmonton (5.000 piani e 3.000 siepi). Tutti però nel 1978. Anno non olimpico…
 

Ma torniamo nel New Jersey e a quella strada che Rono prende verso lo sportello di una banca. Per mandare soldi in Kenya, siamo nel 1986 quindi largamente distanti dai sistemi di transito di denaro dei tempi nostri, era necessario aprire un conto corrente. “Ci deve versare subito 25 dollari per le pratiche di apertura, Mr. Rono”, gli disse l’impiegato allo sportello. “Poi incasseremo il suo assegno e invieremo dove vuole lei la cifra che ci indicherà”. Era tutto chiaro a Henry. Che in tasca aveva l’assegno e altri 30 dollari in contanti. Prima di andare in banca si era allenato e cominciava sentire un certo languorino allo stomaco visto che non aveva fatto colazione. Se avesse dato i 25 dollari per l’odioso balzello alla banca con una banconota da 5 difficilmente avrebbe potuto sfamarsi. Certo, avrebbe potuto tentare di farsi cambiare l’assegno, ma anche quell’operazione sembrava complicata. “Ci penso, vado a pranzo e torno”, disse più o meno il campione. Che non aveva fatto i conti con il clima di diffuso sospetto che c’era (o c’è ancora…?) quando un uomo afroamericano entra in una banca. Muhammad Alì raccontò più volte di essere stato fermato dalla polizia mentre stava correndo per allenarsi. “Perché quando vedono un nero che corre pensano stia scappando dopo aver svaligiato un casa”, disse con il suo consueto slang The Goat.
 

Uscito dalla banca Rono si trova di fronte 5 agenti di polizia poco intenzionati alla discussione. Lo perquisiscono, lo portano al commissariato, mettono a confronto il suo volto con quello di un pericoloso criminale di cui avevano una fotografia e dicono che sì, probabilmente sono la stessa persona. L’accusa è tremenda: rapina a mano armata di quattro banche. La faccia del delinquente vero somiglia solo in un aspetto a quella di Rono. Sono entrambi di pelle nera. Nessun collegio di avvocati di grido viene ingaggiato per tirarlo fuori dai guai come meriterebbe. Il suo legale d’ufficio bofonchia qualcosa e prende atto che il suo, a insaputa, cliente famoso è già stato sbattuto in uno stanzone con un’altra ventina di disperati. Tra i quali però ce n’è uno che evidentemente nel 1978 era fuori di galera e qualcosa di atletica masticava. “Ehi, ma tu sei Henry Rono!”, gli dice non appena ne intravede nitidamente i lineamenti. Rono fa spallucce, vorrebbe scomparire e farsi gli affari suoi, ma di fronte all’insistenza del compagno di cella ammette di essere il detentore di quattro record del mondo. “Se davvero sei Henry Rono allora facci vedere come sai correre!”, gli urla uno che dalla stazza e dal piglio sempre uno al quale opporsi può non essere così indolore.
 

Lo stanzone misura 75 yds, sono circa 70 metri. I residenti si spostano tutti contro il muro dopo aver spostato brande e ogni cosa possa ostacolare quella che Rono inizia ad abbozzare. E che invece diventa una vera e propria sessione di allenamento. Rono corre per quasi 80 minuti di fila senza fermarsi, osservato prima con stupore e poi incitato come in uno stadio da quei disperati che non credevano ai loro occhi vedendo la leggerezza con la quale quest’uomo fendeva la mefitica aria nello stanzone. Il rumore crescente generato da questo momento tanto singolare non poteva non richiamare l’attenzione delle guardie che una volta visto questo spettacolo non tardarono a minacciare Rono se quella corsa fosse stata nient’altro che un tentativo di innescare una fuga. “Ma quale fuga, questo ragazzo è un campione!”, urlò il detenuto che per primo aveva riconosciuto Rono.
 

Il giorno dopo la scena si ripete. Henry decise che quello stanzone affollato di disperati non fosse diverso dai boschi o dagli altipiani nella Rift Valley nei quali correva libero e felice sin da bambino. Corre avanti e indietro 242 volte, arrivando a coprire 10 miglia. Il direttore del carcere, infastidito da quel clima di festa che le corse quotidiane di Rono stavano generando, decise allora di trasferire quel pericoloso rapinatore di banche in una cella singola. Un luogo decisamente più confortevole e senza altri abitanti. Con tv e doccia. Ma con spazi evidentemente molto più angusti.
 

A Henry non restava che continuare ad allenarsi correndo sul posto sfinendosi di piccoli passi per mantenere un grado accettabile di condizione fisica. Fin quando, sei giorni dopo quell’arresto inopinato per il quale non gli chiesero nemmeno “scusa”, Henry Rono sentì il rumore della chiave di ferro nella toppa con il secondino che senza troppe cerimonie gli comunicava di togliersi dai piedi. Una storia senza lieto fine. Una volta fuori dal carcere Henry divenne prigioniero di un aguzzino ancor più subdolo, l’alcool. E fino alla morte, avvenuta il 15 febbraio scorso, fece slalom per problemi e frustrazioni, tra povertà e tentativi di riscatto. Scrisse un’autobiografia nel 2010 che concluse con la frase: “Ho capito che senza la corsa non sarei mai riuscito a superare i miei problemi”. Senza la corsa, ma anche senza quegli sciagurati 25 dollari da pagare e un tempo nel quale nemmeno essere Henry Rono garantiva un trattamento da essere umano.

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