Il Foglio sportivo

Oltre l'errore di Kimi Antonelli c'è il futuro della Formula 1 

Umberto Zapelloni

A Monza sbatte subito, ma la Mercedes punta su di lui. Ecco chi c’è dietro al baby fenomeno dei motori

Ci sono ciambelle che non riescono col buco. Metti tutti gli ingredienti giusti nel forno, ma poi qualcosa va male e ne viene fuori un mappazzone che assomiglia poco al dolcetto che avevamo in testa. La storia di Kimi Antonelli a Monza prevedeva un altro finale, ma forse anche un altro inizio. Tutto avrebbe dovuto portare a un’ora di prove con la Mercedes di Russell e poi all’annuncio del suo ingaggio per l’anno prossimo. Toto Wolff aveva aspettato il diciottesimo compleanno del suo bimbo d’oro per metterlo in macchina, aveva deciso di affidargli la Freccia Argentata sulla pista di Monza, nelle prove libere del Gran premio d’Italia, quello di casa sua. Gli aveva preparato un percorso dolce con un paio di prove private, prima di sbatterlo davanti al mondo. Tutto era apparecchiato per trasformare il debutto in una festa. E Kimi al suo primo giro aveva addirittura colorato di fucsia la sua colonnina. Primo giro, miglior tempo. Sembrava di vivere in una favola. Ma le favole ogni tanto si ingarbugliano e cambiano rotta marcia dopo marcia. Così, al quinto giro Kimi è finito nel muro all’esterno della Parabolica, la curva dedicata a Michele Alboreto, un altro grande pilota italiano, l’ultimo ad aver fatto sognare i tifosi della Ferrari. Una nuvola di sabbia e una vicina che arriva dalla radio: “Ok, ok. I’m sorry”. La smorfia di Toto Wolff è tutta un programma. Kimi esce dalla monoposto con il numero 12, quello che aveva scelto per il suo esordio e il suo futuro.

Fuori sta bene, dentro probabilmente non troppo. Lui che nelle formule minori ha sbagliato pochissimo in tutta la sua carriera, è finito nel muro nel giorno del debutto in Formula 1, con tutto il mondo che ti guarda.

     

        

Fino alle 13.30 di ieri era il diciottenne più contento del mondo. Cinque giorni dopo il suo compleanno si era infilato una tuta Mercedes, un nuovo casco tricolore, e stava realizzando la prima parte del suo sogno. Debuttare in Formula 1, in quello sport che da quando aveva cinque anni aveva cominciato ad annusare dopo i primi giri sui kart.

D’altra parte è un figlio d’arte. Papà Marco ha corso con le Gt e poi si è fatto la sua squadra. Gli ha trasmesso la passione e le buone maniere. Gli ha insegnato a non montarsi la testa, ma nello stesso tempo gli ha insegnato la leggerezza. A lui e a mamma Veronica importa soprattutto che sia un bravo ragazzo. E loro, a detta di tutti, sono dei genitori modello, diversi da quelli che stanno a bordo campo o a bordo pista incitando i loro pargoli. “Quando Kimi correva nei kart io non ero attaccato alle reti a urlare, ma a lavorare, lo accompagnava quasi sempre Veronica che è stata bravissima perché ha sempre avuto un approccio disteso e sereno alle gare – racconta papà – Io dovevo portare a casa i soldi per mantenere tutti. Abbiamo sempre affrontato le cose un po’ alla volta, man mano che venivano, della serie: fasciamoci la testa quando ce la siamo rotta. Veronica gli ha trasmesso tanta serenità, una qualità che gli ha fatto bene nel modo di affrontare la gara e la vita. Gli abbiamo sempre cercato di trasmettere serenità oltre che i valori giusti, come il fatto che continua a frequentare la scuola e vorremmo arrivasse alla maturità l’anno prossimo comunque andrà la sua carriera”.
“La famiglia di Kimi è solida e lo ha aiutato a crescere”, aveva detto una settimana fa Toto Wolff. Lo stesso concetto ripetuto l’altro giorno da Stefano Domenicali. “In certi momenti, soprattutto quando correvo nei kart, papà è stato molto duro, non ai livelli di quello di Max che si racconta lo lasciasse in autostrada a un distributore di benzina se la corsa era andata male, ma è stato severo, una cosa che da piccolo mi ha fatto un po’ soffrire. Ma poi ho capito che lo faceva perché vedeva delle potenzialità e voleva solo che le sfruttasse tutte. Adesso ripensando a quanto sia stato duro lo capisco e lo ringrazio perché mi ha aiutato tanto”, aveva raccontato al Foglio Sportivo proprio Kimi qualche mese fa.

Marco aveva scelto una strada diversa da quella di papà Verstappen per far crescere il suo ragazzo: “Sono stato duro per quanto si può essere duri con un figlio a cui cerchi di insegnare qualcosa cercando di non fargli commettere gli stessi errori una seconda volta. Il motorsport è il mio mondo e avevo capito il suo potenziale, mi sarebbe dispiaciuto non fosse riuscito a sfruttarlo. È inevitabile che all’inizio si facciano degli errori, ma l’importante è non ripeterli”, racconta papà. 

Ieri non è stato duro. Non sarebbe servito a nulla. Kimi ha capito benissimo di aver sbagliato, di aver esagerato nell’aggredire la pista al suo terzo giro. Se vai contro le barriere al terzo giro della tua vita è normale che tu ti senta in colpa. Certo, anche la Mercedes ha la sua responsabilità. Lo ha sbattuto in pista con una gomma morbida, prestazionale, senza farlo crescere gradualmente. Sembra un peccato di golosità. Suo e del team che non lo ha protetto abbastanza.

     

        

Ma in Formula 1 prima o poi sbattono tutti. Verstappen nei suoi primi Gran premi era soprannominato Versbatten per i crash che faceva, Villeneuve è stato per anni l’aviatore. La storia di questo sport è piena di piloti che hanno sbagliato all’inizio del loro percorso. Non si diventa campioni senza sbattere mai. Certi incidenti aiutano a crescere. Sono botte che fanno male all’umore, ma non cancellano il talento. E soprattutto questo inizio con il botto non farà cambiare idea alla Mercedes: il futuro è tutto di Kimi.

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