Il Foglio sportivo

“Così è scoppiato il mercato”. Parla Giorgio Perinetti

Francesco Gottardi

“Diffidenza, estero, intermediari. Il ds resta un profilo di riferimento tecnico, ma diventa anche un coordinatore: i presidenti sono scesi in campo, le trattative sono più complesse e internazionali, c’è crescente necessità di competenze fiscali e manageriali". Intervista al direttore sportivo dell'Avellino

C’è un solo modo per definire il pasticciaccio attorno a Victor Osimhen: inefficienza di (calcio)mercato. La domanda e l’offerta che vanno in tilt, fino a dirottare uno dei migliori attaccanti del momento nel periferico campionato turco. Un insulto al pallone. “Il problema sono i ricatti dei procuratori”, tuona Aurelio De Laurentiis. E non solo: cifre impazzite, bolle arabiche, vuoti normativi, codici d’onore dimenticati. Come si è arrivati a questo punto? “Una volta le strette di mano avevano valore”, racconta al Foglio sportivo uno dei veterani di questo mondo. Giorgio Perinetti ha 73 anni e si appresta iniziare “più o meno il mio cinquantesimo campionato da direttore sportivo”. 


Oggi l’Avellino in Serie C. Ieri il Palermo di Dybala, la Roma di Zeman e il Napoli di Maradona. “Ho vissuto tutte le generazioni del direttore sportivo. Le grandi squadre da giovane e le altre in età matura, tuffandomi nel calcio più puro: il mio mestiere è molto più difficile in queste categorie. Ma ogni realtà ha la sue caratteristiche”. E allora iniziamo insieme al dirigente un lungo viaggio nel tempo. Fino agli albori delle trattative moderne.
 

Anni Ottanta. Milanofiori, L’allenatore nel pallone al cinema – “Canà, indovini chi le ho comprato!” – e la finestra dei trasferimenti che chiudeva ben due mesi prima dell’inizio della Serie A (non è eresia ma nostalgia, l’appello degli allenatori odierni). “All’epoca il ds era una sorta di direttore commerciale”, spiega Perinetti. “Un deus ex machina dell’area tecnica: a seconda del club in cui si operava, da titolo o da salvezza, cambiava un po’ la ratio delle cessioni. Ma i ricavi provenivano soltanto dagli incassi al botteghino e dalle plusvalenze reali. Il marketing ancora non esisteva. I diritti tv nemmeno. C’era un limite ai giocatori stranieri. I presidenti s’interessavano soltanto dell’amministrazione. E il ds allestiva la rosa in autonomia”. 
 

Anni Novanta, sentenza Bosman e regolamentazione. “Entra in scena la contrattualistica, l’agente. Una figura in rapida evoluzione: da rappresentante del calciatore a consulente dei proprietari durante la campagna acquisti. Fino a invadere il territorio del ds”. S’intravedono le prime crepe. “Il loro interesse però è piazzare i giocatori, non costruire la squadra. Un dettaglio che per almeno un altro decennio ha fatto mantenere le distanze”. E così arriviamo ai giorni nostri. “Ora il ds resta un profilo di riferimento tecnico, ma diventa anche un coordinatore: i presidenti sono scesi in campo, le trattative sono più complesse e internazionali, c’è crescente necessità di competenze fiscali e manageriali. Dunque il direttore sportivo deve saper giostrare le sue capacità. Facendo i conti con nuovi settori esplosi con rilevanza: su tutti l’invasività dei social media”. E degli intermediari.
 

“Il caso Osimhen è l’apice di un fenomeno esploso in modo esponenziale”, sottolinea Perinetti. “Troppo alte le cifre in ballo: non può più non esserci la gestione diretta da parte della proprietà. Sono numeri che spostano gli equilibri. Gonfiati dalle commissioni”. È questa la variabile impazzita. “Nei trasferimenti di una volta il giocatore si spostava da una squadra all’altra con una procura del 5-10 per cento, pagata dalla società direttamente all’agente”. Semplice procedura standard. “Adesso invece, oltre al procuratore, si affacciano altri elementi per agevolare i negoziati e pretendono cifre esorbitanti: la commissione non ha prezzario”. Un esempio? “Gosens dall’Atalanta all’Inter, gennaio 2022. I due club distano appena 40 km: fosse accaduto un paio di decenni fa, avrebbero eseguito il transfer negli uffici societari. C’erano molti più incontri fra dirigenti, più fiducia e conoscenza diretta. Con la prassi odierna si mandano avanti i procuratori. Se questo non basta viene chiamato in causa un intermediario. Poi spuntano padri, fratelli, un fiume di personaggi invadenti. Tante trattative sono saltate proprio per questo”. Un incubo. “In certi casi le commissioni superano le richieste di trasferimento: si pensi a Dybala quest’estate”. Dalla Roma all’Arabia, anzi no.
 

“Il mercato sta andando fuori controllo per due ragioni”, continua Perinetti. “La legge di compensazione: in Italia c’è l’obbligo di fideiussione, che aumenta i costi e terrorizza i proprietari. Dunque si cercano sempre più calciatori all’estero. L’altro aspetto è la debolezza di un meccanismo che fatica a regolamentarsi da sé e ha smesso di autotutelarsi”. Al dirigente torna in mente “quell’antica stretta di mano davanti al contratto sancito: il rispetto e la collaborazione fra i club dettavano legge. Ormai ci vogliono blocchi di carte infiniti che nemmeno tutelano le parti. Una totale dispersione di energie”. Come si reagisce? “Il calcio italiano – e non solo – ha bisogno di fare sistema: le nostre assemblee sembrano liti condominiali. Manca ogni visione d’insieme. Ciascuno guarda al proprio orticello. Ma senza una politica organica che effettui riforme strutturali e affronti le problematiche della modernità, dai diritti tv alle commissioni, continueremo a ristagnare”.

  
L’appello è ai club, ai vertici federali. Per il resto Perinetti è sereno. Si è divertito, nella sua lunga carriera. Highlights? “Beh, non scorderò mai il giorno in cui Dino Viola m’incaricò di trattare la cessione di Ancelotti dalla Roma al Milan”. Calda estate del 1987. “Ero alle primissime armi, eppure con potere di firma: mi sono ritrovato tra Galliani e Berlusconi, affiancato dal figlio di Viola, con Gaucci e il padre di Malagò nel cda giallorosso. Un imprimatur da giganti. Ma anche una trattativa record: vendemmo Carletto per 5,8 miliardi di lire”. Soddisfazioni. “Poi Cafu dal Palmeiras alla Capitale: che gran colpo. Ma voglio menzionare anche un affare mancato: Weah dal Monaco al Napoli. Ce l’avevo in pugno. Svanì per piccoli dettagli. Forse ero troppo giovane, chissà”. Porte girevoli. “Andò bene invece con Dybala al Palermo. E checché se ne dica, Zamparini era un generoso”. Qual è l’attimo più adrenalinico per un ds? “Le compartecipazioni erano molto intriganti”, sorride Perinetti. “E un istituto determinante per i club: risolveva problemi economici e di organico. Così metà giugno diventava un periodo cruciale per capire quanto denaro avevamo a disposizione per il mercato. Risolverla alle buste significava riscattare, perdere, vincere, nascondere le proprie intenzioni. Nemmeno questo esiste più”. E quei 5,8 miliardi per Ancelotti, anche a parità di potere d’acquisto, oggi non varrebbero manco l’attenzione degli intermediari. Contento Osimhen.

 

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