sospesi nel tempo

Benvenuti a Berwick-upon-Tweed, dove il calcio se ne frega di storia e geografia

Il paradosso dei Berwick Rangers: scozzesi per scelta, inglesi per geografia. Unico club europeo a giocare in una lega straniera, restano fedeli a Edimburgo, nonostante la tentazione di un campionato inglese più ricco. La lotta per sopravvivere

Quando il treno Azuma, nome fuori luogo per un convoglio che corre da Londra verso la Scozia, attraverso la brughiera delle Midlands e poi la costa del Mare del Nord, si avvicina alla stazione di Berwick-upon-Tweed, fa una curva che disegna uno scenario incantevole: un altissimo ponte in pietra in curva sopra il fiume.

 
Peccato che il panorama bucolico distragga i viaggiatori dal guardare in basso mentre il treno corre scorre sopra il Tweed, che nulla ha a che vedere con il famoso tessuto a costine: vedrebbe, tra le piccole e tipiche case popolari inglesi, una spianata verde, lo Shielfield Park. E’ il lillipuziano stadio dei Berwick Rangers: nel nord della Gran Bretagna non hanno molta fantasia per i nomi dei club: Rangers è il più gettonato. L’impianto, poco più di un prato con pista d’atletica e una tribuna, è chiuso: l’ultima partita è stata giocata a fine aprile. Dei 4 mila spettatori, poco più di mille hanno il lusso di poter stare seduti: i posti sono solo in piedi, com’era nel calcio delle origini. Era la giornata finale del campionato di Slfl, la Scottish Lowland Football League, una sorta di Serie C scozzese, dove la squadra locale, la cui maglietta è prodotta in Italia dalla Macron di Bologna, si è piazzata a un non esaltante 13esimo posto, su 18: ha scampato la retrocessione nei Dilettanti. Sono lontani “gli anni d’oro del Grande Real”, i decenni 80 e 90, quando i gloriosi Rangers militavano nella Serie B scozzese: cinque anni fa, dopo un drammatico e umiliante spareggio, perso 7-0, con altri Rangers, quelli del Cove, il club di Berwick è retrocesso nei bassifondi del calcio highlander, da dove fatica a risalire.

 
Storie di calcio minore di iper-provincia, che pure ha i suoi appassionati, se non fosse per il passato: il club fu fondato nel lontano 1881, lo stesso anno in cui un nobile siciliano di nome Giovanni Verga pubblicava un romanzo rivoluzionario chiamato “I Malavoglia”.  E, ancor più, se non fosse un’anomalia che fa dei Rangers un unicum: sono il solo club in Europa che non gioca nel campionato del proprio paese, ma in quello del paese accanto. I Rangers hanno il passaporto del paese che ospita il campionato più ricco e famoso del mondo, la FA inglese, ma giocano dalla parte sbagliata del calcio, quello più povero e bistrattato della SL, la lega scozzese. 


“La Geografia è Destino” è il titolo di un celebre saggio di Ian Morris, professore di Stanford. Nel caso di Berwick è un fato da tragedia sofoclea: la geografia ha voluto, infatti, che la cittadina sia più vicina a Edimburgo, la capitale della Scozia, che a Newcastle, il capoluogo del Northumberland, di cui fa parte. E che sulla foce del fiume Tweed passi il secolare confine tra la Scozia e Inghilterra. Non a caso, il pittoresco ponte ferroviario si chiama Royal Border Bridge, il confine reale. E la cosa ha creato più di un problema, in passato. La graziosa cittadina vanta, infatti, un peculiare record: è il posto dove si sono combattute più battaglie in tutta la storia d’Europa. Dal 1200 fino al 1482, dal Re Edoardo I, “Il martellatore degli Scozzesi”, fino a Riccardo III, quello del “mio regno per un cavallo” di Shakespeare, per 14 volte gli eserciti scozzesi e inglesi si sono scontrati e trucidati a Berwick che, a ogni battaglia, passava di mano. Città contesa per secoli, alla fine l’hanno spuntata gli inglesi: l’ultima battaglia fu vinta. Dopo l’Union Act,  che combinò assieme la corona di Scozia e d’Inghilterra, niente più battaglie e Berwick divenne la città più a nord di tutta la nazione chiamata England. Il risultato è che la gente del posto si senta più scozzese che inglese.


Tutto questo passato sanguinario non si direbbe oggi, passeggiando sul suggestivo lungofiume, dove un vecchio granaio è stato ricavato in un piccolo ma grazioso museo locale (la mostra più recente celebra L. S. Lowry, il più famoso paesaggista inglese del ’900, che a Berwick passò molte vacanze). Si tramanda una leggenda che vuole la città ancora in guerra, dal 1853, con la Russia. Quando scoppiò la Guerra di Crimea, a cui partecipò anche il Regno di Sardegna al fianco degli inglesi perché il primo ministro Cavour vide l’opportunità di farsi poi aiutare da Londra nell’unificazione d’Italia, la Regina Vittoria firmò una dichiarazione di ostilità a nome dell’Inghilterra, del Galles, dell’Ulster, della Scozia e della città di Berwick-upon-Thames. Ma nel trattato di pace che segnò la fine dello scontro, i notai si dimenticarono di inserire anche la città che, tecnicamente, sarebbe ancora oggi in guerra. Altri problemi, più immediati, incombono invece a Shielfield Park: salvare il bilancio del club. Nonostante le dimensioni da pulce, i Rangers hanno una struttura finanziaria da grande squadra: azionariato diffuso, con pacchetti da 100 azioni venduti a 105 sterline. Basta per tenere in piedi il club, ma non per avere una squadra competitiva per tornare, almeno, nella Serie B della Scozia.


Il paradosso dei Rangers è già visibile sul loro stemma: mostra il leone rampante rosso simbolo della Scozia e il leone giallo orizzontale, il medesimo dei Three Lions che campeggiano sulla maglia della Nazionale inglese: un’eresia per i tifosi più puri. L’eretico paradosso diventa infine aporia: il club avrebbe tutto il diritto a chiedere di essere ammesso alla FA, la Lega calcio inglese, in cui anche le serie più infime sono infinitamente più ricche di quella scozzese e i Rangers incasserebbero molti più soldi dalla Lega, nella redistribuzione dei proventi. Ma nessuno, a Berwick, vuole finire in mezzo agli inglesi. Per motivi nazionalistici, ma soprattutto per motivi più pratici. La maggior parte dei giocatori del club viene dai dilettanti, lavorano durante la settimana, giocano al sabato. Si spostano a loro spese per andare a giocare le partite fuori casa. Iscriversi al campionato inglese di League One, significherebbe dover magari andare in trasferta all’Isola di Wight o in Cornovaglia: i giocatori non avrebbero i soldi per viaggi così lunghi e finirebbero per abbandonare la squadra. Sulle sponde del Tweed, vale il motto di Giulio Cesare, riadattato: “Meglio essere salvi nella Serie C scozzese, che finire in fallimento nel campionato inglese”.

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