Il Foglio sportivo
Alla scoperta della nuova Champions extra large
Costacurta: “L’Inter può far bene. Milan meglio che in Italia. Curioso di vedere Juve e Bologna. E l’Atalanta...”
Stiamo per essere sommersi da 203 partite di Champions League, il 47 per cento in più di quelle programmate con la vecchia formula. Se sopravviveremo (noi e soprattutto i calciatori), l’appuntamento per la gran finale è all’Allianz Arena di Monaco il 31 maggio. Sta per partire un viaggio verso un mondo nuovo, non così diverso da quello che aveva sognato Andrea Agnelli. Lo scopriremo tutto in diretta su Sky (tranne una partita del mercoledì trasmessa da Prime) e in chiaro (una gara a turno, non delle italiane) su TV8. Per esplorare il nuovo mondo ci siamo affidati al cannocchiale di Billy Costacurta che di Champions ne ha in casa cinque, ma curiosamente non ha neppure una foto che lo ritrae in campo con la coppa. Meglio quelle con Martina, non si può dargli torto.
Cominciamo dall’inizio: 7 settembre 1988, Sofia: il suo esordio europeo contro il Vitosha. “Lo ricordo benissimo, come faccio a dimenticarlo, era la mia prima partita da titolare in Europa. Cominciavano a dire che potevo far parte di quella squadra. Mentre l’anno prima avevo ancora un senso di inferiorità nei confronti dei miei compagni, durante il ritiro quell’anno Sacchi cominciò a utilizzarmi più spesso tra i titolari. Quella partita per me valeva molto. Andò bene e non uscii praticamente più da quella squadra, probabilmente perché portavo fortuna. L’anno prima ero partito titolare poche volte, la prima contro l’Inter e la seconda con la Juve e era andata bene, quindi…”. Difficile pensare che Sacchi assegnasse una maglia da titolare solo per scaramanzia. “Andò bene anche a Sofia e non era scontato anche se giocavo in una squadra fortissima che vinceva quasi sempre. Anche perché ai tempi non conoscevi un granché i tuoi avversari in Europa perché non c’erano gli strumenti di oggi”.
Aveva capito che sarebbe diventato titolare in settimana vedendo le scelte di Sacchi in settimana. Non c’era bisogno di grandi discorsi, anche se Sacchi era uno che non smetteva mai di parlare con i suoi giocatori: “Passava per le camere anche la sera prima e ti teneva lì per ore, tanto che arrivammo a spegnere le luci per fargli credere che dormivamo già. Ti allenava e parlava tutta la settimana e poi al sabato non finiva mai con le ultime cose… forse era insicuro, non so. Lui aveva questa ricerca ossessiva, voleva interiorizzare nei suoi giocatori un tipo di gioco che pensava ci avesse portato sul tetto del mondo. Ma visti i risultati che ha raggiunto non si può proprio dargli torto”. Però spiega bene come dopo un Sacchi serva un Capello. “Diverso, anche nello spiegarti le cose. Più pragmatico e con meno parole. E poi per me, che lo avevo avuto nelle giovanili, era quasi un secondo padre dopo che il mio se ne era andato quando avevo 17 anni”.
Scegliere tra le cinque Champions in bacheca non è difficile: “La prima non si dimentica mai ed è per distacco la più importante con i 90 mila milanisti a Barcellona… ma poi anche quella contro la Juve che è stata la più sofferta perché nelle ultime 5 partite con l’Ajax, l’Inter e poi in finale ne avevano vinta una sola e al novantesimo. Con quel rigore di Sheva che non partiva mai. Lui guardava l’arbitro che non fischiava. Un’immagine che ho ancora bene in testa…”. Se non fosse uscito al 66’ avrebbe tirato anche lui un rigore. “Ero rigorista da sempre… una volta con Capello ho vinto la classifica cannonieri del torneo di Casale nel 1984 segnando tre rigori e una punizione”. E la partita del cuore? “Tante, troppe. Tra quelle giocate, ricordo perché sorprendente la semifinale con il Barcellona di Eto’o, Ronaldinho, Iniesta, avevo 40 anni e un giorno. Non avrei mai pensato di giocare io. Tra quelle non giocate la finale di Istanbul, una partita maledetta, quel 3-0 diventato 3-3. In un quarto d’ora abbiamo rovinato una delle partite più belle giocate dal Milan”.
Per vincere la sua prima Champions bastarono 9 partite. Oggi ce ne sono 8 solo nella prima fase. È diventato più difficile. “È vero che ai tempi non potevi sbagliare due partite di fila, ma si giocava solo contro le squadre campioni che magari non erano i più forti l’anno dopo. Oggi affronti le migliori. È più difficile oggi. Allora magari sbagliavi un intervento e ti giocavi la qualificazione perché le partite erano tutte tiratissime, ma oggi si gioca di più e ci sono tutte le migliori. Comunque io ho sempre fatto fatica a vincere la Champions”. Ed eccoci alla nuova formula: “Ci sono più partite, ma saranno tutte decisive per la classifica che promuove o manda ai playoff. Con la vecchia formula le ultime partite del gironcino spesso erano inutili. Quest’anno si dovranno sempre far giocare i migliori perché ci sarà sempre da lottare. La classifica globale è una bella idea. Sono curioso di vedere come andrà”. È il momento di fare delle scelte. Chi gioca il miglior calcio in Europa oggi? Costacurta non ha dubbi: “Il Manchester City gioca meglio del Real Madrid che però ha una caratteristica unica: vuole vincere, mentre il City vuole essere bello. Il Real ha più attitudine alla vittoria. Oggi Ancelotti ha dimostrato di essere uno dei migliori allenatori del mondo e quando ha avuto dei giocatori tecnici ha avuto squadre meravigliose… però se c’è Real-Atletico Bilbao e City-Wolverhampton, guardo il City… però per vincere Carlo è il numero uno”.
L’Inter è nelle prime tre, quattro. Come qualità di gioco, ampiezza della rosa, è tra le top. Tra le cinque italiane è quella con più chance in Europa. Anche se il Milan mi sembra più votato all’Europa che al nostro campionato. Ha giocatori che nel campionato italiano non sono così stimolati come nelle coppe. Il Milan ha qualità tecniche e fisiche e potrebbe fare bene. Ha giocatori di qualità che in Italia mollano, un po’ come faceva Seedorf… Quante volte abbiamo litigato col panterone che in Champions si trasformava in uno dei primi cinque d’Europa”. Un avvertimento a Leao, Theo e anche Loftus Cheek. Intanto il Milan deve superare due partitone in cinque giorni: Liverpool e Milan. “Un allenatore è sempre in balia dei risultati. Certo, dovesse perdere male vuol dire che c’è qualcosa che non va…”. E le altre? “Il Bologna ha un calendario buono in casa e se cresce un po’ può arrivare tra le 24 e provare a fare i playoff. L’Atalanta non può più nascondersi. Ha vinto una coppa e come l’ha vinta. Ha asfaltato tutti. Quell’Atalanta ha una mentalità che in Europa può fare bene, sarei sorpreso non ce la facesse. La Juve è una bella scommessa. Non li vedo così forti da arrivare in semifinali, però Thiago Motta mi piace molto e lo stimo moltissimo. Sono una delle squadre che mi incuriosiscono di più, voglio vedere se la farà giocare bene come il Bologna. È un allenatore lucido e severo, direi inflessibile, con la personalità di dire questo non rientra nei miei programmi… Per questo lo avrei visto bene anche al Milan”. Ma perché la carriera di allenatore si è fermata al Mantova? Billy è onesto. “Perché non volevo essere un allenatore mediocre. Ho capito subito che non avevo le qualità per diventare un grande allenatore. Non avevo la pazienza di dar retta a certi personaggi che girano attorno al calcio. Mi piace essere circondato da persone con cui sto bene. Ho un grande limite: non riesco a stare con le persone che non sopporto. E poi ci voleva una passione che io non ho. Gli allenatori vincenti dedicano al calcio il 90% della loro vita, io arrivavo a malapena al 60%, perché mi piaceva un po’ troppo fare anche altro. Fare l’allenatore è un mestiere bellissimo, ma io non sono nato per farlo. Preferisco una vita serena”. Ed è stato bravo ad ammetterlo. Un lavoro che gli piacerebbe un sacco è quello del dirigente Figc. All’epoca del commissariamento Fabbricini è stato subcommissario: “Non potrei mai fare il presidente federale, troppa politica, ma quello del commissario era stato un ruolo stupendo…”. La Nazionale si è ripresa: “Spalletti è bravo. Credo che abbia sbagliato qualcosa nella comunicazione all’inizio, magari sopravvalutando un po’ anche la capacità dei giocatori di interpretare le sue idee. Quando dai tante informazioni devi avere una squadra molto ricettiva e lui non aveva tanto tempo, oltretutto arrivava a fine stagione con giocatori magari stanchi. E’ bello che abbia ammesso i suoi errori e sia ripartito bene. Mi ha ricordato un po’ il Sacchi prima maniera che chiedeva un sacco di cose tutte assieme… devi cominciare chiedendo due tre cose per volta… Ma credo Spaletti lo abbia capito”.
Ventisette anni di Milan, ventotto anni di Martina, quasi diciassette di Sky… Un uomo che quando si trova bene non cambia. Allora meglio restare nel calcio da commentatore: “Gioco in una squadra bellissima come quella di Sky. Mi diverto e mi emoziono ancora a dare delle opzioni senza essere aggressivo. Mi piace cercare di non essere banale, arrivare in certi angoli dove non tutti arrivano e magari sorprendere”. O giocare d’anticipo. Come qualche anno fa.