Gerónimo Barbadillo ai tempi dell'Avellino (foto LaPresse)

l'intervista

L'Italia di Gerónimo Barbadillo

Alberto Facchinetti

Era "Patrulla" divenne "El Tartufon". Il calciatore peruviano ex di Avellino e Udinese ci racconta i suoi settant'anni 

Capigliatura afro da film poliziesco del decennio precedente, quando arrivò ad Avellino dopo l'estate del Mondiale spagnolo, l'ala destra peruviana Gerónimo Barbadillo divenne subito riconoscibile dalle tribune dello stadio Partenio e sugli schermi sintonizzati su 90º minuto. Rimasto nelle retrovie del calcio, prima come osservatore dell'Udinese, oggi impegnato con il figlio e il genero in una società di procuratori, è diventato una sorta di icona pop di quel periodo in cui in Serie A giocano i campioni del mondo più Zico, Platini e Maradona. Successivamente avrebbe ispirato anche "un laboratorio di idee nel mare del web", in pratica un sito internet quasi giornalistico che ha preso il suo nome.

In questi giorni Barbadillo compie gli anni. Wikipedia italiana dice il 24 settembre, quella inglese il 29. "Invece è il 27", dice al telefono da Udine centro, dove da tempo ha messo la residenza. Allora cerchiamo conferma sugli anni, che dovrebbero essere settanta tondi tondi. "Sì, una bella cifra, grazie a Dio. Festeggiamenti in casa con figli e nipoti. Mi muovo solo per andare a vedere giocatori in Perù e in Colombia".

Gerónimo è figlio d'arte, il padre Willy ha giocato negli anni Quaranta e Cinquanta, anche in Nazionale. Prima in Perù e poi in Colombia, nel periodo cosiddetto "El Dorado", dove andavano i calciatori sudamericani più bravi a prendere più soldi, come Pedernera, Di Stefano, Tim e Heleno de Freitas. "Io debuttai ai 18 anni con Sport Boys - racconta al Foglio - la squadra che era stata di papà. Non è stato facile reggere il confronto, però all'esordio segnai subito un gol e subii il fallo da rigore, vittoria per 2-0. Anche mio fratello era bravo, ma a differenza mia non aveva tanta disciplina. In quegli anni molti sudamericani peccavano in serietà, io invece avevo l'obiettivo di arrivare in Europa". Ce l'avrebbe fatta, ma prima c'era da trascorrere ancora un decennio in America Latina.

Gerry entra nel giro della Nazionale, poi va al Defensor di Lima e quindi emigra all'estero la prima volta nel 1975, in Messico con la maglia del Tigres. Nel frattempo il suo soprannome è già diventato "Patrulla" perchè in quegli anni passava in televisione un telefilm in cui il protagonista, un poliziotto, aveva esattamente il suo stesso look e gli assomigliava. 

Nel 1975 vince anche la Copa América. Era la Nazionale di Teófilo Cubillas, che giocava nel Porto, e di Hugo Sotil, allora nel Barcellona.

In Messico, dove diventa una leggenda, vince una coppa nazionale e due scudetti. Nel 1982, Mondiale di Spagna: solo alla vigilia della prima partita con il Camerun (è il girone dell'Italia, c'è anche la Polonia) arriva in Galizia, perchè fino a poche ore prima era impegnato in un campo messicano. L'ala parte dalla panchina ed entra nel secondo tempo al posto della stella Cubillas, ma il risultato rimarrà fermo sullo zero a zero. Altro pareggio con gli Azzurri, infine la sconfitta con Boniek e compagni. E il Perù va casa.

In quelle settimane fervono le trattative di calciomercato. La Serie A italiana si è appena aperta al secondo straniero per squadra.  

"Mi arrivò una proposta dal Boca Juniors, mi voleva anche l'Atletico Madrid, ma io preferivo l'Italia. Avevo fatto un tour qui con los Tigres e mi era piaciuto molto. Soltanto che in Messico ero abituato a lottare sempre per vincere i campionati, invece finii all'Avellino grazie all'intermediario che aveva portato qui Juary sempre dal Messico. Ma ormai avevo firmato e non potevo tornare indietro. La prima impressione della città, che due anni prima aveva vissuto un terribile terremoto, fu brutta. Dove sono finito? Eppure la gente, passionale come quella del Sudamerica, mi ha voluto bene. Allora in ogni posto dove andavi a giocare, dovevi azzerare tutto e ricominciare daccapo perchè allora senza internet non ti conoscevano mai prima: ogni trasferimento era come iniziasse nuovamente la carriera".

Il Partenio? "Impressionante, in casa potevi vincere con tutti, giocavi alla pari con le prime in classifica grazie alla forza dell'ambiente. Il bus degli avversari all'arrivo veniva quasi ribaltato dai tifosi, negli spogliatoi si trovavano certe facce che gli avversari era meglio non li guardassero negli occhi. In Sudamerica i tifosi erano sì caldi, ma più tranquilli".

Barbadillo ricorda anche gli allenamenti. "Al giovedì facevamo la partitella, attaccanti titolari contro difensori titolari, ci giocavamo panino con mortadella e coca-cola. Di Somma mi colpiva come fosse domenica, guarda che tra pochi giorni dobbiamo giocare insieme, gli dicevo. Dai queste botte a Pruzzo, Altobelli, a chi verrà, non a me. No no, io non pago il panino, mi rispondeva... I difensori sudamericani erano cattivi ma innocenti, l'Italia è sempre stata conosciuta per i difensori".

Da "Patrulla" in Perù, "Pantera" in Messico, in Italia Barbadillo diventa "El Tartufon" o più semplicemente Gerry. Anche se il suo preferito rimane il primo soprannome affibbiatogli.

"Ad Avellino i capelli me li faceva il mio amico parrucchiere Costantino, poi però me li sono accorciati".

All'Udinese lo troveremo con i capelli corti che è come li porta anche oggi. "Mi vendono all'Udinese, senza esserne al corrente, l'anno che se ne era andato Zico. La prima stagione va bene, in estate ho una richiesta dalla Francia, e visto che De Sisti si era portato dalla Fiorentina Bertoni, chiedo se per me ci sarà spazio nel mio ruolo. Gioco la prima di Coppa Italia, ero già in forma perchè mi allenavo anche nei mesi estivi, poi però mi tengono fermo tutto l'anno. Decido allora di cambiare completamente vita".

Nell'estate del 1987 abbandona il professionismo per poter andare a giocare tra i dilettanti nella squadra di San Vito al Tagliamento, Promozione friulana, dove il presidente era un suo amico.

"Forse avrei potuto giocare ancora qualche stagione tra i professionisti, ma una volta le carriere dei calciatori si concludevano prima".

Oggi gli capita di tornare in America Latina per visionare i calciatori.

"In Perù i calciatori hanno una buona base tecnica, ma non ci sono progetti e idee per farli crescere. Gli allenatori fanno giocare sempre quelli con più esperienza e non i giovani. La preparazione fisica e tattica è quella che è. I più forti degli ultimi anni sono quelli andati via subito diventando giocatori di livello all'estero. In Argentina e in Brasile invece li fanno esordire presto, mentre in Colombia un po' piu tardi. Questo è ancora il periodo dei calciatori colombiani, come per esempio anni fa c'è stato quello dei cileni, io penso che a breve verrà quello dell'Ecuador, dove ci sono giocatori veloci che sanno saltare l'uomo".

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