Fabio Borini esulta dopo il gol del pareggio della Sampdoria contro il Genoa (foto LaPresse)

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Nel derby di Genova Fabio Borini questa volta ha fatto da sé

Marco Gaetani

L'attaccante della Sampdoria ha segnato il gol del pareggio contro il Genoa (i blucerchiati hanno poi vinto ai rigori). Per una volta si è preso il proscenio senza dover lavorare per qualcun altro

Un pallone che arriva con i giri giusti sul destro, l’impossibilità di elaborare un pensiero che non sia il tiro in porta. Fabio Borini si è regalato così un momento di immortalità, riprendendo un derby di Coppa Italia che la Sampdoria non avrebbe meritato di perdere eppure stava perdendo, bloccata in una sorta di maledizione poi sfatata ai calci di rigore, in un sedicesimo di Coppa dal valore ben più grande di quello nominale. I blucerchiati ci arrivavano con la fame di chi si ritrova in Serie B mentre i rivali di sempre sono ai piani alti, il tutto in un inizio di stagione più tormentato del previsto, con un cambio di allenatore già in archivio. Non ci ha pensato, Borini: ha visto il pallone che passava e lo ha calciato forte verso l’angolo più lontano, in un gesto tecnico che non siamo abituati ad associare al suo volto affilato, spigoloso, al suo essere perennemente al servizio di qualcun altro, senza volersi prendere la scena.

La sua carriera era nata con premesse imponenti, dal Bologna al Chelsea a sedici anni, in un periodo storico in cui l’Inghilterra guardava con enorme interesse ai nostri giovani. Tornato in Italia dopo aver appena assaggiato le prime avventure da professionista, un prestito proficuo allo Swansea con cui aveva conquistato la promozione in Premier League, si era ritrovato senza nemmeno immaginarselo alla Roma, che lo aveva prelevato dal Parma nella stessa estate in cui aveva firmato con i ducali. Era la prima Roma degli americani, con Luis Enrique in panchina e il duo Sabatini-Baldini al timone. Silenzioso, affidabile, letale, Borini si era rivelato il soldato perfetto per il tecnico asturiano: nove gol al primo giro di giostra in Serie A, arrivati giocando solo 24 partite e in una squadra a lungo disfunzionale. La mano in mezzo ai denti per esultare dopo ogni gol, il soprannome “Er Caciara” appiccicatogli addosso da una pagina Facebook di grande successo a voler indicare la capacità di Borini di non fermarsi mai, di generare confusione nelle difese avversarie con la sua iperattività. Ragazzo schivo, perbene, forse anche troppo per un mondo come quello del calcio italiano, Borini aveva deciso di tornare in Inghilterra, lusingato dalla corte del Liverpool. Nel frattempo aveva assaggiato anche la maglia azzurra dopo aver brillato in Under 21, sembrava destinato a grandi cose, ma la sua carriera non ha rispecchiato le premesse: non come capita a molti talenti per ragioni “di testa”, ma semplicemente perché non sempre tutto va come si immagina.

Si è messo al servizio di tutti gli allenatori che ha avuto, dal Sunderland al Milan, dal Verona al Fatih Karagümrük: in Turchia, all’improvviso, a 32 anni, ha iniziato a segnare come non aveva mai fatto in carriera: nove gol nel primo anno, venti nella terza stagione. In panchina c’era Andrea Pirlo, che lo ha immediatamente chiamato alla Sampdoria quando ne ha avuto l’occasione. E quest’anno, in una Samp costruita su due nomi che conoscono la B come le loro tasche come Coda e Tutino, era finito indietro nelle gerarchie, come troppo spesso gli è capitato in carriera. Ma il calcio è materia insondabile. Basta un pallone che ti si avvicina al piede come hai sempre sognato per guadagnarsi un attimo di immortalità.

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