La diciottenne Muriel Furrer durante la prova Juniores a cronometro. Una caduta in quella in linea giovedì le è costata la vita (foto Getty Images)

Il Foglio sportivo

Ai Mondiali di ciclismo correranno tutti anche per Muriel

Giovanni Battistuzzi

La rassegna iridata di Zurigo 2024 funestato dall’incidente mortale della giovane svizzera Furrer

Correre il Mondiale di ciclismo non sarà facile. Anche se corridore e corridori forse non la conoscevano. Era però una di loro, una di noi. E quando si incrocia la morte, i pensieri provano ad andare in fuga per poi venire sempre riacciuffati dalla domanda “e se succede a me?”. Muriel Furrer è morta venerdì a diciotto anni. Giovedì era caduta durante la prova Juniores del Mondiale di Zurigo.

E sì che nel guardare quel circuito, quelle strade, l’attenzione alle esigenze di tutti gli utenti, anche e soprattutto dei ciclisti, noi che la bici la pedaliamo spesso (se non sempre) eravamo rimasti affascinati, ci sembrava quasi un sogno ciclistico, soprattutto in giorni dove era scoppiata di nuovo la violenza verbale dei tanti Vittorio Feltri che godono a vederci sotto le gomme.

Una notizia del genere non ce la potevamo aspettare.

Eravamo pronti a gioire e appassionarci delle possibili lotte tre Lotte Kopecky, Demi Vollering, Elisa Longo Borghini e compagne oggi, o tra Tadej Pogacar, Remco Evenepoel, Mathieu van der Poel e compagni domani. Le vedremo comunque, ma con un magone che abbiamo già sperimentato.

E le guarderemo non per mancanza di rispetto nei confronti di chi è morto, ma per rispetto nei confronti di chi è morto. 

Non è semplice farlo. Non lo è mai. Quelle due ruote a pedali a volte sanno essere crudeli, dannate, infami.

Ogni volta che saliamo in bicicletta sappiamo che può essere rischioso muoversi su di un mezzo che è attaccato al suolo in due punti di tre centimetri. Sappiamo però anche che ne vale la pena. Che il rischio tutto sommato è calcolato. E sappiamo anche che qualora ci succedesse qualcosa saremmo felici che tutto attorno a noi continuasse a pedalare e sempre di più.

Non è semplice spiegare tutto questo, spiegare che sia i corridori sia noi noi ciclisti che di arrivare primi da qualche parte ce ne frega il giusto, spesso niente, abbiamo negli anni fatto i conti con la paura e con la morte, chi più chi meno, e che proprio facendoci i conti abbiamo compreso come muovendoci su di una bicicletta si possa superare tutto, andare avanti anche per chi non potrà più farlo.

Ciò non vuol dire però che sia accettabile che una ragazza di diciotto anni possa morire in gara. Ci si deve interrogare su un bel po’ di cose. Federazioni e corridori si devono incontrare e ascoltare. E questa volta per davvero.

Non sarà facile questo fine settimana. Per nessuno.

Non era così che ce lo eravamo immaginato.

Le premesse erano altre. E assai gioiose perché sia nella prova femminile sia in quella maschile si affronteranno campionesse e campioni di primo livello, soprattutto tutta gente volenterosa di attaccare da lontano, capace di fregarsene di quella tattica che sussurra di andare a risparmio, di aspettare e aspettare. 

Il percorso poi favorisce la voglia di stupire. Il circuito finale è duro, ma non eccessivamente duro. Inizia con uno strappo di quelli che fanno bruciare le gambe, quello della Zürichbergstrasse, poi prevede una salita di un paio di chilometri non troppo dura ma con due tratti più ripidi, uno al nove per cento di pendenza. E tra la cima di questa e l’inizio della discesa ci sono dieci chilometri che salgono e scendono senza soluzione di continuità, buoni per stimolare gli istinti rivoltosi di chi è in gara. Tipo Demi Vollering e Lotte Kopecky, ma anche Elisa Longo Borghini e Cecilie Uttrup Ludwig, Marianne Vos e Katarzyna Niewiadoma. Tipo Tadej Pogacar e Remco Evenepoel, ma anche Mathieu van der Poel (davvero c’è chi pensa che il percorso sia troppo duro per lui?) e Julian Alaphilippe, Ben Healy e Tom Pidcock, Pello Bilbao e Ben O’Connor. O chissà un Primoz Roglic di anarchica libertà depogacarizzata o un Michael Matthews che su percorsi duri e da inventare tatticamente ha iniziato, anno dopo anno, a trovarsi sempre meglio. 

È circuito, quello zurighese, che lascia spazio alla capacità di improvvisare. Soprattutto alla fantasia. 

Quella di chi lo guarderà immaginandosi di pedalare in un luogo dove ci si può abbandonare al puro piacere di muovere i pedali senza dover stare ossessivamente attento a portare a casa la pellaccia. Quella dei corridori che a furia di sentirsi dire che era percorso per scalatori hanno finito per convincersi. Salvo qualcuno che, dopo averlo percorso e ripercorso, si è fatto persuaso che se Tadej Pogacar e Remco Evenepoel non fanno i Pogacar e gli Evenpoel, cioè gli assi pigliatutto, c’è posto anche per un’insurrezione ragionata.

Assisteremo a quello che accadrà con poca gioia e con la certezza di essere uno in meno.

Fai buon viaggio Muriel.

Di più su questi argomenti: