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Il 4-4-2 sembrava scomparso. È tornato sotto mentite spoglie
Lo schema che ha dominato il calcio italiano per una quindicina d’anni era diventato démodé. Marco Baroni e Paulo Fonseca l'hanno modernizzato per renderlo ancora attuale
C’era una volta il 4-4-2 come soluzione standard, dogma di natura sacchiana che ha dominato il calcio italiano per una quindicina d’anni, il concetto di prima punta (generalmente alta) e seconda punta (da manuale più bassa e rapida, pronta a sfruttare il lavoro del centravanti) mandato giù a memoria. Poi, all’improvviso, più nulla. Nell’epoca del calcio fluido, di una proposta sempre più articolata, chi si ostinava talvolta a ripescare uno dei sistemi di gioco tra i più tradizionali – citofonare Diego Pablo Simeone, per esempio – è stato a lungo visto alla stregua di chi bestemmia in chiesa. E se le due punte sono sopravvissute in alcune sacche del nostro calcio, come in quelle legate al 3-5-2, proposto in versione difensiva oppure più offensiva in base alla qualità a disposizione (con Simone Inzaghi e Antonio Conte tra i principali sostenitori), il recupero del 4-4-2 che sta avvenendo in queste settimane lascia così tanto sorpresi che c’è chi non si arrende e cerca formule alternative per identificare quello che stanno mostrando, per fare due nomi, Paulo Fonseca e Marco Baroni.
Nel primo caso si parla di 4-2-4, nel secondo di 4-2-3-1, come se ci fosse un rifiuto nascosto. Eppure è bello vedere come questi due allenatori stiano lavorando su principi antichi, modernizzandoli. Fonseca ha scelto un assetto effettivamente molto offensivo, eppure fondamentale, specialmente nel derby, per anestetizzare la costruzione dal basso dell’Inter: soprattutto nella ripresa, i difensori nerazzurri si ritrovavano davanti questo blocco compatto composto da Pulisic e Leao pronti ad alzarsi al fianco di Abraham e Morata, per poi tornare ai lati di Reijnders e Fofana. Morata e Abraham sono due attaccanti molto lontani dal concetto classico di 4-4-2, estremamente mobili, uno più tecnico, l’altro più portato alla sponda e all’attacco alla profondità. Stanno bene insieme, riescono a giocare vicini, a intendersi, a mettere in difficoltà i centrali avversari giocando ora entrambi all’attacco, ora a svuotare il centro per lasciare spazio ai tagli letali di Pulisic.
Anche Baroni, come Fonseca, è arrivato a dama a forza di aggiustamenti, seguendo un concetto che pare uscito da uno di quei ragionamenti cari ai general manager Nba nella notte del draft: talvolta si sceglie per talento, senza assecondare quelle che sono le reali esigenze della squadra. Quando dal mercato, in aggiunta a Castellanos, Baroni ha ricevuto Boulaye Dia, non lo ha relegato al ruolo di alternativa: li ha messi in campo entrambi. Si completano alla perfezione: l’argentino ama il contatto fisico con il centrale avversario, il duello costante, persino la soluzione a effetto. L’ex Salernitana, invece, è un serpente: a lungo non si vede, ma quando appare fa malissimo. In questa stagione, contando anche lo spezzone di Coppa Italia con la maglia dei campani, ha segnato un gol ogni 71 minuti. Al fianco di Castellanos legge gli spazi che la difesa gli propone e li aggredisce con la precisione del chirurgo.
Fonseca e Baroni dovranno continuare ad avere grandi risposte soprattutto dal pacchetto degli esterni in termini di sacrificio: Pulisic e Leao, Isaksen e Zaccagni. Ma in questo scorcio di campionato, è affascinante tornare a vedere qualcosa che sembrava essere finito nel dimenticatoio.