Il Foglio sportivo
Le due vite di Gianluigi Lentini
“Se potessi tornare indietro vorrei una ruota al posto di quel ruotino”. Intervista all'ex giocatore di Torino e Milan
“Mi piaceva andare in discoteca, come a tutti i ragazzi. Certi piaceri li ho coltivati sin da subito, ma, al di là delle leggende metropolitane nate, cresciute e sparse ad arte, sono sempre stato, nonostante le apparenze, un professionista esemplare. Sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andar via. Almeno sino a quando…”.
La vita di Gianluigi Lentini, conte eletto di Carmagnola, da non confondersi con quello di manzoniana creazione, ma con il sangue palermitano nelle vene, è sospesa fra il talento e l’estro dei predestinati, quel modo spregiudicato, quasi irriverente, di trattare il pallone, gli avversari e il mondo circostante e il ruotino montato a un autogrill dopo che una delle ruote della sua Porsche si era forata. C’è un prima, un dopo e poi un’altra vita, che inizia dopo due giorni di coma e di disperata attesa dei parenti, dei compagni di squadra, degli amici e dei tantissimi che avevano scoperto in quello stesso attimo di volergli bene…
“I primi calci ad un pallone li ho tirati prestissimo, ma a capire dove potevo arrivare ci ho messo un po’. Avevo otto anni quando ho superato il mio primo, e unico, provino al campo Agnelli, ma, ad essere sincero, all’inizio della mia avventura nelle giovanili non è che giocassi tanto. Ero piccolino e faticavo a crescere. Sognavo, come tutti gli altri, ma che non fosse solo un miraggio l’ho pensato solo dai quindici anni in su. Che ero cresciuto lo vedevo da solo, ed anche che avevo cominciato a giocare come si deve. E poi, se tutti continuavano ad elogiarmi, doveva esserci un perché. Lì ho capito che il calcio che conta era un traguardo accessibile. Lì ho capito che sarei potuto diventare un calciatore professionista nella squadra che avevo sempre amato. Ero un tifoso del Toro, da molto prima che cominciasse la storia”.
Tutto avviene in fretta. A 15 anni capisce, a 17 arriva il debutto in prima squadra…
“Assolutamente inaspettato. Il giorno prima avevo giocato una partita al Filadelfia con la Primavera, da applausi, come spesso mi capitava, quando alla fine della partita un dirigente del settore giovanile mi dice che non dovevo andare a casa, ma partire con la prima squadra. Dentro di me ero arrabbiato. La sera sarei dovuto uscire con gli amici e quella convocazione all’improvviso non solo scombussolava i miei piani, ma mi lasciava perplesso. Pensavo che, avendo giovato con la Primavera, sarei rimasto in panchina a guardare la partita. E, invece, a dieci minuti dalla fine, con il Brescia che stava vincendo 2 a 0, Gigi Radice mi manda in campo. A mo’, evidentemente, di contentino. Le sorti di quella partita persa non potevo certo cambiarle io!”.
Gigi Radice, Eugenio Fascetti, Emiliano Mondonico. Tre allenatori, tre personalità carismatiche, tre modi diversi di affrontare il calcio e la vita…
“Radice è stato il mio allenatore per poco, quando ero ancora un ragazzo aggregato alla prima squadra. Fascetti era un sergente di ferro con tanto di elmetto in testa. Ho sempre pensato che fosse una brava persona, ma specie con i più giovani era molto duro. Se non rigavi dritto, erano dolori. Una volta avevo detto qualcosa ai giornalisti, che lui non aveva apprezzato. Detto fatto. Il giorno dopo mi ha spedito in tribuna e, successivamente, prendendo a pretesto le mie comprensibili lamentele, mi ha mandato a giocare per quindici giorni con la Primavera”.
Poi arriva Mondonico, il suo allenatore del cuore…
“È l’allenatore dei miei anni migliori. Lui mi ha fatto sentire importante e io volavo. Come mai prima e come mai più dopo. È l’unico allenatore, con cui ho mantenuto un rapporto di amicizia, di quella vera, anche dopo la fine della carriera”.
Che cosa le è rimasto di quel Torino? Gioie, ma anche un dolore…
“Eravamo partiti dalla Serie B e siamo arrivati al terzo posto in A. Quel Toro è ancora amato dalla gente granata. Il contraltare è l’enorme delusione della Coppa UEFA persa nel 1992, pareggiando 0 a 0 ad Amsterdam contro l’Ajax, dopo il 2 a 2 dell’andata. Una finale persa senza perdere. Sarebbe stato il primo grande trionfo di una squadra che in Europa non aveva vinto niente. E niente avrebbe vinto dopo. Un’amarezza enorme, che neppure il tempo ha mitigato”.
Subito dopo quella finale persa, il Torino del presidente Gian Mauro Borsano si scopre con l’acqua alla gola, sovrastato, com’è, dai debiti. Bisogna vendere e in fretta. Lei viene ceduto per una cifra per quei tempi spropositata al Milan di Silvio Berlusconi. I tifosi si ribellano. Scendono in piazza gridando: “Se Lentini se ne va, bruceremo la città” e non le risparmiano un emblematico lancio di monetine. Erano furibondi contro la società, ma se la presero anche con lei…
“Ero attaccato anima e corpo al Torino e non volevo andare via, ma tutti, genitori, procuratori e amici stretti, mi ripetevano in coro che non potevo rifiutare un’offerta di quella portata, non solo dal punto di vista economico, ma anche di quello della carriera. Era una prospettiva nuova quella che mi si apriva. Il mio errore fu di dichiarare pubblicamente che non volevo andare via dal Torino. In quel momento era una promessa sincera, ma è normale che si siano sentiti traditi e sono finito, giustamente, sul banco dei contestati”.
Quella contestazione accesa, che la costrinse a uscire da una porta secondaria della sede torinese dell’Ansa le pesa ancora?
“No. Anzi. Quella protesta chiassosa e, per certi versi esagerata, fu un plateale segno d’amore”.
Al Milan conosce subito Silvio Berlusconi…
“Berlusconi era una persona molto ambiziosa, che non si accontentava di quello che aveva vinto. Aveva il talento del grande motivatore e sapeva coinvolgerti, come nessun altro. A me disse che avevo fatto bene ad andare al Milan perché avrei vinto a mani basse il Pallone d’oro. La storia aveva purtroppo in serbo un altro copione…”.
Già, era in agguato la pagina nera dell’incidente stradale, accadutole quando tornava da un quadrangolare agostano, organizzato per festeggiare i cento anni del Genoa. Aveva forato e, al posto di una gomma c’era un ruotino. E su una curva della Piacenza-Torino, sbanda, cappotta, batte la testa sull’asfalto, mentre la sua auto va in fiamme. Entra in coma. Il suo risveglio, dopo due giorni trascorsi in una sala di rianimazione, viene accolto come un miracolo. Le è rimasto un ricordo, magari sbiadito, del suo ritorno alla vita. A una vita aggiunta a quella già vissuta…
“Al di là di quello che quell’incidente ha comportato per il prosieguo di una carriera, che non è più tornata ai livelli di prima, mi ritengo una persona fortunata. Non sono più stato il campione che tutti avevano conosciuto e apprezzato, ma sono qui a raccontarle la mia storia. Ho fatto altre cose e tante altre ne farò. Sono una persona viva, che ha apprezzato ancora di più il sapore e il valore della vita, dopo quella notte di buio. Dopo essere stato vicinissimo al punto estremo del non ritorno”.
A Roma si direbbe che se l’era un po’ cercata, correndo a 200 chilometri all’ora con un ruotino al posto di una ruota…
“Non è andata così. Questa è un’esagerazione da effetti speciali. Non andavo a 200 all’ora. Ho pagato la mia gioventù. Certe cose non le capivo. Non avevo letto le istruzioni, quando mi hanno cambiato la ruota. Non sapevo che la velocità massima consentita con il ruotino era di 70 chilometri orari. Andavo piano, ma evidentemente non quanto avrei dovuto. Basta superare i cento all’ora per far sì che il ruotino si surriscaldi e scoppi. Come è accaduto a me. Cosa mi ricordo di quei momenti? Per sei mesi e forse un anno, un attimo mi veniva in mente una cosa e subito dopo dimenticavo tutto. Soffrivo di amnesie continue perché, evidentemente, il mio cervello era stato toccato in qualche punto sbagliato. Del resto, a dirla tutta e sdrammatizzando, forse non era normale già di suo. Rieducazione motoria, assistenza psicologica, compiti a casa. C’è voluto tempo. E tanto impegno, ma almeno come persona ne sono completamente uscito”.
Come calciatore, da lì in poi che carriera fu?
“Un poco alla volta ero faticosamente tornato in prossimità dei miei livelli. La mazzata spartiacque fu l’esclusione dalla formazione titolare nella finale di Champions persa per 1 a 0 dal Milan a Vienna contro l’Ajax. Subentrai a Boban a sei minuti dalla fine. La mia carriera ad alti livelli finisce lì. Il Lentini che era stato non tornerà più. Ho perso le motivazioni e la voglia di soffrire. Ho perso la cazzimma, come dicono a Napoli e senza quella non si va da nessuna parte. Ero arrivato a un certo punto e non avevo voglia di ricominciare da zero, e neppure da tre, per colpa di uno scherzo del destino”.
Torna al Torino senza lasciare tracce memorabili e alla fine della fiera c’è l’ultima favola vissuta da protagonista a Cosenza che mai, come allora, aggregò nuovi tifosi in tutta Italia…
“Avevo solo trentun anni, ma avevo deciso di smettere e per otto mesi non mi ero allenato, ma dentro di me evidentemente avevo ancora voglia di giocare e, quando mi arrivò l’offerta del presidente del Cosenza Paolo Fabiano Pagliuso, accettai subito, senza neppure aspettare di conoscere le condizioni. Una volta allenatomi, ho fatto belle cose e Cosenza mi è rimasta nel cuore”.
Ci torna qualche volta?
“Ci vado tutte le estati. Ho acquistato una casa. È la mia personalissima finestra sul mare”.
Di lei si è saputo che aveva ripudiato il calcio per il miele…
“Il mondo delle api mi aveva sempre affascinato e sono entrato in società con un amico, che faceva l’apicoltore da una vita. Le cose non sono andate come speravo e la passione per le api è finita, forse perché io le cose, se non le conosco e affronto in prima persona, non riesco a farle bene”.
C’è un calciatore a cui è rimasto affezionato?
“C’è una chat a cui sono iscritti tutti i calciatori del mio Toro, ma quello che mi è rimasto nel cuore è uno che non tutti conoscono. Si chiama Gianluca Sordo, centrocampista ai tempi di Mondonico. Per me è come un fratello”.
Lo vede in giro un nuovo Lentini?
“La Serie A e gli altri campionati li guardo poco. Se proprio vuole un nome, dico Leao. Ha tecnica, estro e qualità fisiche, che assomigliano a quelle che erano le mie. È discontinuo, ma lo ero anch’io. I giocatori come noi hanno la discontinuità nel loro Dna. Dipendono dalla condizione fisica, dallo stato di forma e da quello degli avversari. Non si gioca mai da soli, anche se impera l’abitudine di non tenerne conto. C’è anche uno che ti marca e che magari azzecca la partita della vita”.
Ora che anche le api sono uscite dalla sua vita, come passa le sue giornate?
“Faccio scouting in giro per il mondo per il Monza di Adriano Galliani e poi gioco a biliardo, che è la mia grande passione. Il ristorante, di cui sono proprietario, non ha solo tavoli dove si mangia, ma anche uno da biliardo, dove si gioca”.
Se potesse salire sul treno che all’incontrario va, rifarebbe tutto quello che ha fatto?
“Magari esistesse un treno che ripercorre il tempo e ci fosse la possibilità di fare una scelta diversa, magari una sola. Io cambierei il ruotino o meglio vorrei comportarmi in modo diverso, una volta ritrovatomi con un ruotino al posto di una ruota. Quel ruotino non mi è ha portato via la vita, ma dal punto di vista del calcio, che era la mia passione e il mio lavoro, l’ha spezzata in due”.