Dikembe Mutombo (foto Ap, via LaPresse)

1966-2024

È morto Dikembe Mutombo

Francesco Gottardi

Il congolese è stato uno dei più forti difensori della storia della Nba. Prima di diventare ambasciatore del campionato americano di basket nel mondo, portavoce delle Nazioni Unite, finanziatore di ospedali, fondatore di progetti umanitari e sanitari dal Sudan al Congo

Per tutta la vita ha difeso. Fosse il pitturato del parquet o la sua Africa poco importa: "Dikembe Mutombo era un incredibile giocatore di basket", lo ricorda perfino Barack Obama. "Ma soprattutto ha cambiato il modo di pensare degli atleti sul loro impatto fuori dal campo". Nel suo caso: ambasciatore dell'Nba nel mondo, portavoce delle Nazioni Unite, finanziatore di ospedali, fondatore di progetti umanitari e sanitari dal Sudan al Congo, dov'era nato 58 anni fa. Da almeno altri due Mutombo era in cura per un cancro al cervello. È morto nella giornata di lunedì. "E ancora più di tutto il resto, mi mancherà la sua risata tonante", ha detto Michael Jordan, che tante volte lo affrontò sotto i tabelloni.

Nel mondo della pallacanestro, non c'è una singola voce fuori dal coro. Mutombo - all'anagrafe una filastrocca: Dikembe Mutombo Mpolondo Mukamba Jean-Jacques Wamutombo - era un gigante buono (2 metri e 18 per 118 chili) oltre ogni retorica. E ha potuto realizzare la sua vasta opera di filantropia per indubbie doti diplomatiche e linguistiche (ne parlava nove, di cui cinque africane). Ma soprattutto grazie al suo strapotere sportivo, foriero di utile visibilità. Il centro di Kinshasa aveva iniziato a Denver nel 1991, per poi ritirarsi a Houston nel 2009: nel mezzo Atlanta, Philadelphia, New Jersey e New York. Una quasi ventennale carriera che ha toccato l'apice a cavallo del Duemila, con le due finali Nba perse con la canotta di 76ers e Nets. Ma è a livello individuale che Mutombo ha toccato svariati record: quasi 1.300 partite, 3.279 stoppate a referto (secondo di sempre dietro Hakeem Olajuwon), per quattro volte miglior difensore del torneo (primato eguagliato soltanto da Ben Wallace e Rudy Gobert), ripetutamente All-Star player, Hall of Famer dal 2015. E quell'iconico gesto col dito - "not in my house" - ogniqualvolta rispediva al mittente un tiro avversario. Tecnicamente non è stato il numero uno nel suo campo (o meglio, nella sua metà campo) soltanto perché ha avuto il privilegio e la sfortuna insieme di animare le arene americane nella stessa èra di Dennis Rodman. Forse però agli antipodi (dissoluto, controverso, egocentrico) per modo di concepire la celebrità.

Non è un caso se oggi infatti intere generazioni di cestisti di origini africane, da Ibaka a Embiid, dichiarano di ispirarsi a Dikembe. Al suo senso di solidarietà e appartenenza. Qualche anno fa lui lo raccontava così: "Ciascuno di noi ha una vocazione. Penso che la mia sia sempre stata cercare di migliorare le condizioni di vita delle persone in giro per il mondo. E ringrazio Dio per avermi dotato di una grande piattaforma: posso usare la mia voce, la mia altezza, un po' dei miei soldi (15 milioni di dollari soltanto per quell'ospedale in Congo, ndr) per rendere il mondo un posto migliore". Aveva ragione MJ: Mutombo finisce di parlare e il calore di quella voce grassa e profonda è la prima cosa che mancherà al basket dietro di lui. E a quel mondo che non ha mai smesso di aiutare.

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