Guido Carlesi esulta per la vittoria nella seconda tappa del Giro d'Italia 1965 (foto LaPresse)

1936-2024

È morto Guido Carlesi, il secondo Coppino

Venne chiamato così per la somiglianza con l'Airone. Se di tutte le corse avesse potuto salvarne una sola in cui si sentì veramente Coppi e non soltanto Coppino, avrebbe scelto il Tour de France del 1961: due vittorie di tappa. E “senza le cronometro, non sarei arrivato secondo ma primo nella classifica generale"

Coppi più di un Papa. Perché morto Coppi, non se ne fece un altro. Al massimo, un Coppino.

Guido Carlesi era un Coppino, il secondo della storia: il primo Mino De Rossi, pistard e anche stradista, oro olimpico nell’inseguimento a Helsinki 1952. Il secondo Coppino lui, Carlesi. Il terzo, Italo Zilioli. Il quarto, Franco Chioccioli. Poi basta. Di Merckxini neanche l’ombra. E chissà di Pogacar.

Carlesi è morto stamattina. Era del 1936, il 7 novembre avrebbe compiuto 88 anni.

Nato a Collesalvetti, residente a Titignano: pisano. La prima bici, un regalo del papà: una Wilma, celeste. Lui aveva 14 o 15 anni. Con quella partecipò alle prime corse, libere, aperte a tutte. E siccome le vinceva tutte, venne iscritto a una società, la Wilma di Navacchio, maglia di lana gialla e celeste, diretta da un calzolaio che la sapeva lunga, Tiarno Casarosa. “Un unico comandamento: fare la vita del corridore – amava raccontare come in una favola rotonda – Significava: andare a letto presto, mangiare sano e bere acqua, allenarsi il giusto”. Gli altri comandamenti sarebbero stati impartiti dalla strada.

Padre manovale, madre casalinga, Guido figlio unico e falegname. Dilettante, correva e vinceva. Fiorenzo Magni lo seguì in una corsa, ne fu conquistato, gli propose di disputare il Giro dell’Olanda. Carlesi vinse una tappa e si classificò secondo nella generale. Professionista dal 1956 con Magni. E fu qui che Carlesi conobbe Coppi, in corsa: “Un dio, ma al tramonto, in bici si stava spegnendo”. Della somiglianza fra Coppi e Carlesi “a scriverlo i giornalisti, io non mi sarei mai permesso, e lo scrivevano un po’ per il naso, un po’ per lo stile in bici”. Se di tutte le corse avesse potuto salvarne una sola in cui si sentì veramente Coppi e non soltanto Coppino, Carlesi avrebbe scelto il Tour de France del 1961: due vittorie di tappa, la Torino-Juan les Pins (“Quel giorno mia moglie venne alla partenza, e la sua presenza mi galvanizzò”) e la Perpignan-Tolosa (“Senza le cronometro, non sarei arrivato secondo ma primo nella classifica generale. Però il Tour era disegnato per Jacques Anquetil, non certo per me”).

Quella volta alla Milano-Sanremo, “in fuga, poi non ne avevo più, il Poggio volevo passarlo sotto, ma la gente mi prese la bici e la rimise sulla strada, io la strada non la vedevo più, e al traguardo arrivai non so ancora come”. Tutte quelle volte che prese una cotta, “ma più di tutte a un campionato italiano, era il Giro del Piemonte e nel finale il Superga, io primo, avevo già vinto, ma all’improvviso divenne notte, forse la digestione, bloccata, forse la benzina, esaurita, e venni ripreso da Nino Defilippis”.

Quella volta al Tour de France, la tappa di Superbagnères, nei Pirenei, “un vento impossibile, non si riusciva a rimanere in piedi, in equilibrio, con le salite di Ares, Portillon e l’arrivo in salita, si correva a squadre nazionali, presi Imerio Massignan per la sella e lo spinsi avanti, verso il traguardo, primo Massignan, secondo io”. Carlesi che in corsa mangiava le pere con il formaggino Mio dentro, i panini con la carne trita e una strizzata di limone, e i Pavesini con il miele, che nella borraccia metteva la birra, fuori dalla corsa fumava qualche sigaretta, le Dunhill, e che si giustificava: “Quando uno corre, butta fuori tutto”.

Corse e buttò fuori tutto, corse fino al 1966, Carlesi, una quarantina di vittorie. Poi caccia e pesca, anche biliardo. All’ultimo chilometro, non si poteva più dire se assomigliasse a Coppi. Coppi morì a 40 anni, Carlesi a più del doppio.

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