Lea Pericoli (foto Olycom)

Il Foglio sportivo

Addio a Lea Pericoli, la signora che ha cambiato la moda nel tennis femminile

Umberto Zapelloni

Il ricordo della campionessa morta a 89 anni. Oltre a essere stata tra le più forti tenniste italiane, la sua è stata una vita piena di moda e televisione

Lea Pericoli è stata la signora del nostro tennis quando il tennis era tutta un’altra cosa e le ragazze non avevano la considerazione e i premi degli uomini. La sua è stata una vita piena e in fin dei conti meravigliosa tra lo sport, la moda e la televisione. “La mia è una fantastica avventura su questa terra”, aveva detto molti anni fa a Gianni Clerici, il grande scriba del tennis italiano. Lea era l’eleganza fatta persona e ha cominciato a giocarci, appena ha capito che le sue fotografie con le mutandine di pizzo facevano il giro del mondo e la rendevano popolare dovunque. Ha aperto una strada per tutte quelle che sono venute dopo e non hanno mantenuto la sua eleganza in campo e fuori. “Ho sempre saputo osare, ma con intelligenza”, raccontava ringraziando sempre Ted Tinling, lo stilista inglese che l’aveva convinta a indossare a Wimbledon abiti da gioco mai visti prima, tanto da farle rischiare una squalifica dalla Federazione.

Negli anni Cinquanta, quando le signore indossavano ancora i soliti vestiti sotto il ginocchio, lei era passata a gonne che oggi sono esposte al Victoria & Albert Museum di Londra. Pizzo e piume, con le mutandine in evidenza e una bandana che oggi indossano anche gli uomini. Era diventata un’icona di stile e le piaceva giocarci sopra anche tanti anni dopo quando era diventata maestra anche nel raccontare il tennis e anche la moda. Indro Montanelli, che era stato ospite di suo padre in Africa, le affidò la rubrica della moda sul suo Giornale, dove naturalmente era anche la firma del tennis in anni in cui non si vinceva così tanto, anzi, dopo Panatta, si vinceva ben poco. Lea tra il 1959 e il 1976, è stata la numero 1 d'Italia e ha vinto 27 titoli italiani fra singolare, doppio e doppio misto e ha raggiunto tre volte gli ottavi di finale del Roland Garros, la prima a 20 anni, e tre volte a Wimbledon, l’ultima a 37 nel 1970, battuta dall’immensa Billie Jean King che a sua volta è comunque riuscita a battere anche lei.

Lea avrebbe compiuto 90 anni a marzo e, in una delle ultime interviste rilasciare al Corriere della Sera, aveva detto “Peccato che un giorno dovrò andarmene. Quando morirò sarò molto infelice”. Non aveva nessuna intenzione di andarsene e quando la incontrai l’anno scorso a natale, premiata dal Coni Lombardo, era sembra la solita Lea, la signora del nostro tennis. Era nata a Milano, ma era cresciuta ad Addis Abeba, dove il padre si era trasferito con la famiglia dopo la Guerra d'Etiopia. Fu proprio lui a portarla su un campo da tennis e ad affidarle la prima racchetta. Non pensava che in quel momento stava dando il via a un pezzo di storia del nostro tennis.  Cominciò a giocare seriamente in Kenya dove era andata a studiare e poi in Versilia dove il papà di Paolo Bertolucci la faceva giocare con qualche danaroso cliente del tennis club per farle guadagnare quei soldi che le avrebbero permesso di girare il mondo per i tornei.

A 17 anni a Forte dei Marmi conquistò il suo primo trofeo al Torneo delle Focette. Cinquant’anni prima di Schiavone, Pennetta, Errani e Vinci aveva portato il tennis femminile italiano nel mondo. Erano gli anni di Nicola Pietrangeli, sarebbero stati una coppia perfetta, invece sono stati sempre come fratello e sorella. La memoria e la storia di un tennis in cui oggi abbiamo il numero uno al mondo, ma che un tempo faticava ad arrivare alla seconda settimana dei grandi tornei. Lea e Nicola lo aveva portato nelle nostre case da dove non è più uscito. Tra le sue grandi battaglie c’è stata anche quella contro il cancro: sconfisse un carcinoma all’utero nel 1973 e un tumore al seno nel 2012, diventando testimonial appassionata dell’Airc. Metteva passione in tutto quello che faceva, come quando cominciò a giocare a golf e si arrabbiava perché non era diventata subito brava come con la racchetta. Ogni tanto le scappava anche qualche parolaccia, ma poi si scusava. Con quel sorriso che l’ha accompagnata per tutta la vita.

Di più su questi argomenti: