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Il Foglio sportivo

Peppiniello Di Capua, la voce degli Abbagnale, doppiatore ad honorem

Massimo M. Veronese

Due ori olimpici per l'ex canottiere italiano, timoniere dei fratelli Carmine e Giuseppe: "Se non fossero stati due fuoriclasse non sarebbe servito a niente essere il migliore dell’universo”

L’equipaggio è di quelli nobili anche se viaggia su altri orizzonti ed è un po’ strano, ma non fuori luogo, trovarci Peppiniello Di Capua, fuoriclasse bonsai tra i giganti del doppiaggio, un campione olimpico dello sport tra i campioni del mondo della voce. Lo hanno imbarcato nella sua Napoli al Premio “Voci tra le Onde”, creato dai Windsor del doppiaggio, la famiglia De Angelis che ha dato timbro e fiato al meglio di Hollywood, da Cary Grant ad Angelina Jolie. Dopo due ori olimpici Peppiniello si è visto assegnare un Oscar alla voce, e nessuno lo merita più di lui, il cocchiere della diligenza Abbagnale che usava le corde vocali come frustino, l’unica voce nello sport, quella del timoniere, importante come un gesto atletico. “In effetti mi sento un po’ parte di questa famiglia – se la ride Peppiniello doppiatore – loro sono eccezionali: devono andare in sincronia con gli attori, lavorare sulla loro gestualità, dare voce agli sguardi. Come quello che facevo io con Giuseppe e Carmine: li sentivo dentro anche senza vederli, li interpretavo e mi sincronizzavo: erano due Ferrari e io mettevo le marce”.

Se Ferruccio Amendola ha dato voce a Rocky Marciano in “Toro scatenato”, Massimo Corvo a Michael Jordan in “Space jam” e Piero Tiberi a Pelé in “Fuga per la vittoria”, Peppiniello ha fatto parlare gli Abbagnale dal vivo: sette mondiali, 14 anni di regno cantati da Giampiero Galeazzi, le prime pagine strappate al calcio con una disciplina da 200 mila praticanti, una certezza dello sport italiano come Sinner, costruita con allenamenti al limite dell’asfissia e zero parole, amati e popolari come la prima strofa dell’inno nazionale.

Peppiniello è un figlio del mare, che da bambino, nelle infinite partite a pallone giocate tra i cortili, sognava di diventare Gigi Riva: “Sono cresciuto nella Castellammare portuale ed ero un piccolo bandito, ai miei tempi si veniva su per strada, ma il paese allora era una famiglia allargata, i bambini potevano entrare nelle case di chiunque e ovunque sentirsi a casa”. Il suo destino però sembrava segnato: da più di cento anni la famiglia gestisce un biscottificio. “L’ha fondato mio nonno Vincenzo e adesso è in mano ai miei figli. Le specialità? Biscotti glassati, anicini, pastefrolle. Ma soprattutto il frullo”. Lui invece trova posto alla Sip, le gare in giro per il mondo le fa con i permessi e le ferie. Ha anche una bella faccia tosta: a 14 anni vuol fare il canottaggio con 155 centimetri di altezza e cinquanta chili scarsi. Lo mettono invece a fare l’embedded. Dovrà dare occhi e voce al due con. “La scuola di timoniere me la sono fatta da solo, non c’è maestro che te lo insegni. Ho imparato a vogare per capire la fatica, acquisito con il tempo una sensibilità particolare. Anche senza vederli capivo come vivevano la vogata, percepivo il gesto tecnico, il movimento della pala, sentivo se erano stanchi o arrabbiati, sentivo i loro sentimenti”

Spiega che i campioni erano loro “se non fossero stati due fuoriclasse non sarebbe servito a niente essere il miglior timoniere dell’universo” ma che l’ammiraglio a bordo era lui: “Se recriminavano su qualcosa uno con l’altro bastava che dicessi che andava bene così e la discussione finiva lì. Delle chiacchiere me ne fregava poco, io dovevo raggiungere il risultato, la responsabilità era mia. In gara non si parlava, si ascoltava solo quello che dicevo io. Ma non perché fossi chissà chi o perché mi credevo di essere chissà cosa, ma perché tra di noi la fiducia era totale e il rispetto dei ruoli assoluto”. Ogni trucco vocale era lecito per tenere alta l’attenzione “Avevo un mio stile: tenere il ritmo dei colpi, ma evitare le cantilena che dopo un po’ ti addormenta. Cambiavo timbro e tonalità alle parole, creavo persino dei disturbi vocali perché la concentrazione non calasse mai”. Vivevano in simbiosi ma erano corpi separati. “Carmine e Giuseppe sono miei fratelli, ma non miei amici. Ognuno di noi faceva la propria vita lontano dagli altri. Diventavamo una cosa sola solo in gara, non facevamo spogliatoio fuori dello spogliatoio. Io soprattutto volevo stare distaccato, troppa confidenza non andava bene per rendere al meglio in gara”. Sbuca un Peppiniello un po’ carogna: “Se un giorno non erano in forma non mi importava niente, con me dovevano dare comunque il massimo. Se sei stanco e dai il settanta per cento perché non puoi dare di più va bene, ma se sei fresco e dai il settanta per cento no. Ma con loro non è mai successo: Peppe e Carmine non hanno mai saltato un allenamento, se dovevamo fare 100 ripetute non ne hanno mai fatte 99, semmai 101. E Peppe era uno che non voleva mai perdere nemmeno con se stesso”.

Oggi il con nel due è sparito, nell’otto maschile è una ragazza a fare da Peppiniello e il canottaggio non è più il suo mondo. Gli Abbagnale sono irripetibili? “Mi auguro di no, ma da trent’anni non vedo più nessuno come noi”. Un sogno però ce l’ha: “Adesso che sono doppiatore ad honorem – torna a sorridere – vorrei incontrare il mio idolo Jack Nicholson”. Passa la voce…