Andres Iniesta (foto Ap, via LaPresse)

scarpe al chiodo

Andrés Iniesta si è ritirato davvero

Giovanni Battistuzzi

Il centrocampista spagnolo ha detto addio al calcio giocato. Per una grandissima maggioranza di appassionati di calcio aveva smesso uscendo dal Camp Nou il 20 maggio del 2018

Quando Andrés Iniesta ha annunciato l’addio al calcio una gran parte di noi ha avuto una reazione di stupito smarrimento. Ma come, ci siamo chiesti, non si era già ritirato? La seconda query di ricerca su Google è stata “Iniesta anno ritiro”, quasi la notizia apparsa su molti siti fosse ai più considerata falsa, o quanto meno fosse necessario un approfondimento. Almeno sino a ieri Andrés Iniesta giocava ancora all’ Emirates Club nella UAE Pro League, massimo campionato degli Emirati arabi uniti. C’era arrivato dopo sei stagioni passate a vestire la maglia del Vissel Kobe. 

È evidente che avevamo dato fiducia ai nostri ricordi, alla standing ovation che gli aveva riservato il Camp Nou il 20 maggio del 2018, quando era uscito dal campo di gioco del suo stadio all’ottantaduesimo minuto dell’ultima partita della stagione 2017-2018 contro la Real Sociedad. A inizio partita i tifosi del Barcellona avevano festeggiato una volta ancora la vittoria della Liga. Prima del novantesimo si erano commossi nel vedere uscire dal campo quel centrocampista che, con poche parole e molti palloni passati e calciati benissimo, aveva segnato un pezzo della storia del club blaugrana. Ottantaquattromila persone, tifosi avversari inclusi, ad applaudire uno dei più forti centrocampisti del Barcellona, e non solo di quel Barcellona, della Spagna, forse della storia intera. 

Eravamo rimasti lì. Non ci siamo spinti oltre. Certo sapevamo che Andrés Iniesta era andato altrove, che aveva intrapreso una nuova avventura lontano dalla Spagna e dal Barcellona, ma non l’abbiamo seguita davvero.  

È sempre difficile fare i conti con il tempo che passa. 

Una consistente parte dei calciofili di tutta Europa ha preferito congelare il ricordo di Andrés Iniesta nell’ultimo atto al Camp Nou. Lì dove il centrocampista spagnolo è stato in grado di far compiacere tutti gli amanti del pallone, non solo i tifosi del Barcellona. 

Perché Andrés Iniesta è stato uno di quei calciatori, pochi in realtà, capace di essere parte della storia di un club e allo stesso tempo patrimonio generazionale degli amanti del calcio. Unico e senza eguali o rivali. Alla maniera degli Johan Neeskens e degli Andrea Pirlo, dei Socrates e dei George Best, tutti calciatori che non avevano una dimensione condivisa con qualcuno. Perché quello che facevano loro su un campo era diverso da quello che facevano tutti gli altri. Forse non i migliori in assoluto, nella storia almeno, ma calciatori capaci di avere un contraltare.

Un giocatore di quelli che capitano poche volte, ma che negli anni Zero e Dieci del Duemila si erano accavallati con la stessa maglia addosso. Uno di quelli della bravura di Xavi. Si sono trovati fianco a fianco per molte stagioni, diversi e perfettamente sovrapponibili, o meglio affiancabili. Uno capace di smussare i limiti dell'altro. Assieme hanno formato il massimo che poteva essere visto a centrocampo in quegli anni. E per di più in un calcio che sembrava aver stabilito che due giocatori alti un metro e settanta non potevano aver futuro.

Di seguire Andrés Iniesta nelle ultime sette stagioni di carriera se la sono sentiti in pochi e forse abbiamo fatto male. Perché Andrés Iniesta era uno degli ultimi agganci con il calcio bambino per una nutrita schiera di oggi quarantenni. Un calcio compassato, capace di sprazzi di assoluta velocità, ma soprattutto fatto di tecnica sopraffina e di sveltezza di idee più che di sveltezza di gambe. 

A Barcellona e in Spagna lo stanno ancora cercando uno come Andrés Iniesta. Non lo troveranno mai. E forse per fortuna, perché si dovrebbe avere la decenza di non cercare l’irripetibile. Servirebbe solo il buon gusto di ripensarlo giocare e dire che certi giocatori non possono essere replicati. E quindi ringraziare di averli potuti vedere giocare, anche se non avevano addosso i colori giusti, quelli per cui facciamo il tifo. 

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