Beppe Dossena

Il Foglio sportivo

“I ragazzi non sognano più come noi”. Beppe Dossena si racconta

Antonello Sette

Dalle "scavalcate a San SIro al diventare un campione. "Il calcio era il mio catechismo. Non chiamare ogni giorno mia madre, l’unico vero rimpianto della mia vita". Ricordi, primati imbattibili e la voglia di aiutare gli altri


Da bambino abitavo a trecento metri da San Siro. Per me il calcio era più importante del catechismo e della scuola. Andavo a vedere tutte le partite dell’Inter, la mia squadra eletta, ma anche quelle del Milan. Di pagare il biglietto neppure a parlarne. Non avevo mai in tasca i soldi. Per mia fortuna, a quell’epoca non c’erano i tornelli e, fino a quando ho potuto, passavo fra le sbarre. Poi, crescendo, ho imparato a scavalcare. Il reato è prescritto e, quindi, ne posso finalmente parlare!”.

 
Quella del dottor Beppe Dossena da Milano, che nel Milan e nell’Inter non avrebbe mai giocato, è la storia del primo amore che non si scorda mai, quello che ti è entrato nel cuore e che lì è rimasto.

 
La mia prima squadra è stato l’Alcione, che quest’anno è arrivata in Serie C. Ci allenavamo al centro Pavesi. Per andarci, attraversavo a piedi strade senza semafori e salivo sulla montagnetta. Oggi arresterebbero i genitori e anche i tutori per aver lasciato che il figlio compisse a dodici anni una gincana fra quei pericoli, ma io non ci avrei rinunciato per tutto l’oro del mondo. Era una passione più grande di me e, finita la scuola, prendevo la borsa e andavo. I miei genitori non avevano tempo e modo di seguirmi. A tredici anni avevo già le chiavi di casa. Sognavamo, come adesso mi sembra non si usi più. Oggi vogliono le comodità. È cambiata ogni cosa: i genitori e le persone. Noi sognavano il pallone, l’unica cosa che avevamo a disposizione. Erano tempi diversi. Io vivevo di un richiamo che, ogni volta che mi alzavo al mattino, mi prendeva tutto il corpo. Qualcosa che non costava niente”.


Tutto questo le è servito solo a diventare un campione con il pallone fra i piedi?

“Quelli della mia generazione hanno avuto piena contezza della propria vita e deciso sempre in prima persona, mentre oggi i ragazzi e le ragazze non hanno la capacità di gestire e vivere la propria vita, e di avere passioni e progetti, come noi”.


Veniamo al calcio giocato di una volta e ripercorriamo il caleidoscopio all’incontrario delle sue gesta calcistiche…

Sarei potuto andare al Milan, ma ero ancora troppo minuto e, vedendo i miei genitori, hanno pensato che non sarei cresciuto, così mi hanno scartato. Al Torino, invece, sono passati sopra la statura, senza aspettare che crescessi e, sei mesi dopo l’appendicite, mi hanno arruolato. Cinque anni nel settore giovanile, poi Pistoia, Cesena, Bologna, e ancora Torino, Udinese e Sampdoria”. 
 

Torino è stata la tua iniziazione. A Torino dovevi diventare grande…

“Ero in collegio a Porta Palazzo, che nel 1973 era, a tutti gli effetti, una zona franca. Ogni volta erano risse, mignotte, giochi d’azzardo e scappavo più veloce di Marcell Jacobs. Telefonavo a casa una volta ogni tanto con i gettoni ma di lì a poco, persi mio padre. Mia madre non mi chiese di tornare a casa. Veniva a trovarmi in treno una volta alla settimana. Dovevo continuare ad arrangiarmi da solo. Non c’era la televisione, non c’era Internet o i cellulari. Il calcio era il nostro pane quotidiano. Abbiamo vinto un sacco di trofei prima di vincere il campionato Primavera. Ero un ragazzo in carriera, pronto a volare. La consacrazione è arrivata a Bologna, uno dei periodi più belli della mia vita. Lì ho incontrato mia moglie Tiziana. Lì sono nati Gianluca e Andrea. Lì ho passato due anni stupendi, avvolto in un’atmosfera ovattata. Allenatore era Perani e poi Radice. Arrivammo quinti in classifica. Una squadra giovane. Colomba, Paris, Zinetti, Benedetti e Fiorini, che non ci sono più, Eneas, il brasiliano, arrivato che beveva latte e andato via sorseggiando whisky”. 

  

La gloria arriva alla Sampdoria…

Lo scudetto e la Coppa delle Coppe. Andai via a novembre del 1991, nell’anno della Coppa dei Campioni. Feci in tempo a segnare due gol al Rosenborg. Poi accadde che Boskov, che mi aveva garantito di giocare il derby la domenica, mi fece fuori dalla squadra titolare, senza spiegarmene il motivo. Lasciai baracca e burattini per andare a giocare con il Perugia di Gaucci in Serie C. Mi offrì sei anni di contratto, che a 31 anni erano una buona cosa. Non volevo creare problemi a Paolo Mantovani, che cercò di trattenermi, ma dovette arrendersi. Non chiesi mai a Boskov che cosa lo avesse spinto a estromettere da quel derby uno che non era propriamente un ragazzino di primo pelo, ma era un calciatore con una storia importante”.

 

Paolo Mantovani, che non riuscì farla restare, è stato un presidente d’altri tempi, neppure paragonabile a quelli che oggi passa il convento.

“Era un uomo di una lungimiranza e di una lucidità eccezionali. Lui, Anconetani, Rozzi erano gente di un’altra pasta. Mantovani aveva uno spessore culturale superiore. Io lo paragono solo a Sergio Rossi del Torino e a Giovanni Cragnotti della Lazio, per signorilità, umanità e capacità gestionale. A loro modo unici. I presidenti attuali sono figli del nostro tempo, quando non sono creature evanescenti, nascoste dentro i fondi che sono chiamati a gestire. È un altro calcio, un altro mondo e altre vite”.
 

A proposito della Lazio, dove ha lavorato nel settore giovanile, come allenatore dal 1992 al 1994, a Roma gira ancora voce che sia andato via per qualche incomprensione con il responsabile della prima squadra Dino Zoff…

“Non è assolutamente vero. Anzi. C’è stato un momento, in cui volevano mandarlo via. Giovanni Cragnotti mi convocò a casa sua, e a dispetto delle mie perplessità, mi fece chiamare Michel Platini, il sostituto designato, che declinò signorilmente l’offerta perché non se la sentiva di prendere il posto di uno come Dino Zoff, dissi a Cragnotti, “ha visto, come pensavo, non vuol venire”. Gli ribadì anche che, secondo me, non era giusto mandar via Dino in quel momento. Il derby finì in pareggio e cambiarono idea. Quindi, se Zoff rimase alla Lazio, una parte del merito è stata mia e credo di averglielo anche detto”.
 

Poi c’è la Nazionale, trentotto presenze, ma neppure un minuto nella cavalcata mondiale nel 1982…

“Sono l’unico numero 10, che non è mai sceso in campo in un Mondiale a cui ha partecipato. È un record imbattuto e, credo, imbattibile. Sono nell’albo di platino delle beffe calcistiche”.
 

Il calcio di adesso le piace?

“È il calcio di adesso, non trasmette più la stessa gioia e la stessa passione di quando giocavo io. Forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che il calcio non sia la priorità. I calciatori guadagnano molto, ma non so quanto siano felici”.
 

Lei è parte integrante dello Special Team Onlus, che svolge una lodevolissima attività di supporto. All’interno di quello che è stato per metà vita il suo mondo…

“Sono stato io a convincere Paolo Maldini, Andrij Shevchenko, Marcello Lippi e Marco Tardelli. La nostra ragione sociale consiste nel fornire servizi socio-sanitari a tutti gli atleti, passati e presenti, che vivono momenti di difficoltà, dalla depressione post carriera ai cattivi incontri con persone sbagliate, alcol, droga e ludopatia”. 
 

Sua moglie Tiziana l’ha sposata nel 1982? Una coincidenza?
“Le avevo detto che l’avrei sposata, se vincevo il Mondiale e così è stato. Sono passati quarantadue anni e l’amore è sempre quello. Eravamo figli della stessa epoca. Oggi si ha fretta, non si guarda mai al passato, ma solo in avanti”.


Il suo grande rammarico rimane non aver giocato neppure per un minuto nel campionato mondiale dell’82?

“Assolutamente no. L’unico rammarico, che mi porterò appresso finché vivo, è non aver telefonato tutti i santi giorni a mia madre, dopo la morte di mio padre. È un cruccio. Ai ragazzi e a tutte le persone che incontro continuo a dire di non dimenticarsi mai di chiamare i propri genitori. Tutto quello di negativo e amaro, che ho subito nella vita, al confronto non conta niente. Io non sogno mai. Mia moglie ha ancora il padre, la madre, i fratelli. Io non ho avuto questa fortuna. E Dio solo sa, quanto vorrei rincontrare i miei genitori almeno in sogno. Vorrei tornare indietro e passare con loro tutto il tempo che colpevolmente ho trascurato”. 

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