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Il Foglio sportivo

La necessità di diventare cattiva. Intervista a Nadia Battocletti

Giorgio Burreddu

Perenne concentrazione, approccio scientifico e razionalità durante ogni gara. La mezzofondista rivive la sua estate magica tra Europei e Olimpiadi: “Dopo lo start non ci sono più amici”

Nadia Battocletti sa essere cattiva. “Certo, altrimenti non farei questo lavoro. Se in pista una ti supera vuoi riprenderla. E come dice mio padre: dopo lo start non ci sono più amici”. Ma non illudetevi, quest’intervista non ha niente di scabroso. Nadia è dolce, umile, disponibile. Una persona come pensiamo che sia. O come vorremmo che fosse. È sbucata dalla curva del destino nell’ultima, torrida estate. Prima gli Europei di Roma (oro nei 5.000 e nei 10.000 metri), poi l’Olimpiade di Parigi (con un quarto posto nei 5.000 e un argento da impazzire nei 10.000). “Sono entrata nelle case degli italiani”, dice lei. E in un mondo di ladri, eroi, bellimbusti, influencer e gym bro, quell’afflato di voce cotonata ci è sembrato una favola. Mentre lei correva per cambiarsi la vita, Nadia, 24 anni, ha cambiato la nostra. “Quello che è cambiato veramente è che tutti mi osservano per vedere se sono io. È gratificante, e a volte anche divertente”.

 

                 

 

La fermano al supermercato?
“Esattamente. L’altro giorno sono andata a fare la spesa e sono stata fuori due ore e mezza: dovevo comprare solo due cose. Le persone mi guardavano, non capivano se ero io. Uno del mio paese si è avvicinato: ‘Ma cosa ci fai qui?’. Faccio la spesa. Dovrò pur mangiare, no?”.

 

Ha ispirato le persone. Ha capito perché?

“Mi sono arrivate tante di quelle lettere a casa, con i disegni dei bambini o con le richieste di consigli da parte dei genitori, che mi si è riempito il cuore. Una cartoleria di Madonna di Campiglio mi ha inviato un pacco così, un pacco pesantissimo, con tutti i ritagli di giornale. Si sono presi la briga di evidenziare il mio nome su ogni giornale. Ecco, vedere queste cose, questa vicinanza, è il segno che davvero ho lasciato qualcosa”.

 

Al tempo delle mail lei riceve ancora lettere?

“Scrivono sulla busta Val di Non o Cavareno con il mio nome e il postino le porta. Mi è arrivato un disegno di una bambina di otto, nove anni. Anche lei abita in una valle molto simile alla mia. Ha fatto un disegno con tutti i dettagli precisi precisi. Il disegno della gara e quello del podio con una scritta: “Mi sei entrata nel cuore. Per me sei la migliore”. L’ho appeso sopra la scrivania”.

 

Le medaglie si riguardano?
“Sì, ma non tutti i giorni. Per la valenza che hanno non le tengo nemmeno a casa. Ma quando posso riapro la scatola, me la guardo, hai nelle mani qualcosa di pesantissimo. In tutti i sensi”.

 

Los Angeles 2028, è pronta all’attesa di quattro anni?
“Non vedo Los Angeles così lontana. Anzi, è davvero dietro l’angolo. Siamo costellati di eventi, tra Mondiali, Europei e meeting, che l’Olimpiade arriva subito. Mio padre sta già programmando le cose fino all’anno prossimo”.

 

Suo padre ha detto che sarà la sua Olimpiade.
“Più per una continuità di percorso. In America sarò più matura e più adulta. Ammetto che mi sentivo che c’era la possibilità di fare qualcosa di buono a Parigi, ma ci credevano di più mio padre e il mio staff. Il pensare c’era, il desiderare c’era. Raggiungere certi risultati ti dà maggiore forza, maggiore consapevolezza. Ma uno deve sempre lavorare”.

 

Ha capito qual è il suo limite?
No, e quella cosa mi fa paura. Forse proprio perché devo ancora scoprirlo”.

 

Oggi cosa rappresenta per lei l’atletica?
“Inizialmente era un hobby, tra la scuola e tutto il resto. Poi è diventato un lavoro. Ma c’è qualcosa di sentimentale, certo. Perché è come se uno non amasse il proprio lavoro. Io invece mi ritengo fortunata perché amo quello che faccio, ho la possibilità di girare il mondo, il mio ufficio sono le piste d’atletica o il verde dei boschi”.

 

C’è qualcosa che la rende nervosa?
“Non lo so, in realtà non mi arrabbio facilmente. Ma se lo faccio è un problema”.

 

Come si calma?
“Prima di una gara avendo vicino le persone che amo, mio padre, mia mamma, lo staff. I consigli, le parole di queste persone mi calmano, mi aiutano. Con papà non litighiamo, non ricordo episodi particolari. Magari si discute per dei risultati. Ma non è strano farsi allenare da lui. Anzi, è proprio naturale. E il nostro credo sia uno dei binomi migliori”.

 

C’è un insegnamento che si porta sempre dietro?
“Sì: crederci sempre perché nulla è scritto in anticipo. È qualcosa che porto sempre con me”.

 

Lei fa delle gare molto lunghe: a cosa pensa? Si svuota la testa?
“Sono sempre concentrata. È una cosa decisiva perché basta un errore di un secondo e le cose possono cambiare. Quindi bisogna rimanere concentrati su ciò che accade, rimanere lì. Ma restare focalizzati non è una cosa che si fa da un giorno all’altro. La testa conta. Mi sto facendo aiutare da una mental coach, Elisabetta Borgia. Ha captato la persona che ero e insieme si lavora in prospettiva di ogni singola gara, che è sempre funzionale all’evento più importante”.

 

Lei preferisce la velocità o la lentezza?
“La velocità. In un giorno cerco di infilare più appuntamenti, più cose. Gli allenamenti e tutto il resto. Mi piace avere giornate piene. Ma il mio lato non è molto artistico, è più razionale. Penso molto. E questo lo trasferisco anche in gara. Un approccio scientifico, raramente c’è improvvisazione. E un po’ di cattiveria, ovviamente”.