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Fisica, metafisica e misteri di una partita a scacchi
Che strano, il campione Czentovic raccontato da Zweig nella sua “Novella”, privo di ogni finezza. Ma apre una breccia in un mondo di significati, bellezza e passione. Seguiamolo nella sua arte
Cominciamo da una novella, la più famosa che sia stata mai scritta sugli scacchi. Che d’altronde si chiama proprio così: Novella degli scacchi. Il suo autore, Stefan Zweig, è conosciuto soprattutto per un libro, Il mondo di ieri, in cui racconta la fine di un mondo, il suo mondo, il mondo di uno scrittore (di un austriaco, di un ebreo) precipitato nell’immane disastro della Grande guerra. Voglio parlare di scacchi con te, che sei nato dopo il Duemila, ma, anche se a volte agli scacchisti capita, non ti chiederò di dimenticarti del mondo tutt’intorno.
Sei mio figlio, ma non importa, potresti essere chiunque: potresti essere quel tuo amico che si è incuriosito quando ha scoperto che hai un padre, che tipo strano, che gioca a scacchi; potresti essere quel ragazzetto imbronciato che non ne vuole sapere di iscriversi in palestra, e che prova a convincere la mamma che anche i videogame sono uno sport, e quindi pure gli scacchi, che si giocano un sacco online; potresti essere quella bambina che sta sempre in prima fila, attentissima, quando a scuola arriva l’istruttore che le insegna le mosse – qui le ho confinate in uno specchietto, per dire poco meno dell’essenziale; o ancora potresti essere il figlio di un immigrato, uno di quelli che vengono da paesi dove tutti imparano a giocare in tenera età, un giovanissimo ucraino, per esempio, fuggito dalla guerra, che in italiano smozzica ancora solo qualche parola ma che sulla scacchiera non ha bisogno dell’italiano per giocare – c’è un silenzio, quando si gioca! – e poi lui è più forte di tutti i suoi coetanei, e così non deve più far la figura di quello che non sa o non capisce, e ha finalmente un terreno in cui mischiarsi agli altri senza timidezza.
Voglio parlare di scacchi con te, e però la Novella mi rimbalza subito indietro, a più di cent’anni fa, a quando c’erano i piroscafi e per andare da New York a Buenos Aires ci volevano settimane. Su una di quelle navi viaggia, nel racconto di Zweig, il campione del mondo, Mirko Czentovic, che lo scrittore ci presenta come un uomo maldestro e grossolano, privo di qualunque curiosità intellettuale, ma in possesso, fin da ragazzo, di un talento “unilaterale e straordinario”. Aveva ragione Daniele Del Giudice, nella prefazione alla Novella: per Zweig, “l’arte del gioco degli scacchi fa[ceva] parte di un universo composto dalla poesia classica, dalla difesa della spiritualità europea, dall’amore per l’intelligenza, dal gusto per la musica e l’armonia, valori che Zweig stesso inseguì nei suoi racconti”. Ma che succede quando, in un simile regno dello spirito, fa irruzione un campione come Czentovic, imperturbabile e ostinato, privo di qualunque finezza, capace però di battere con la sua “dura e fredda logica” giocatori con doti intellettuali infinitamente superiori, proprio come riuscì a fare – scrive Zweig – il greve Kutuzov contro Napoleone, o Fabio il Temporeggiatore contro Annibale? Tutti uguali, questi generali, tutti privi di genio, di fantasia e arditezza, tutti dotati degli stessi “sorprendenti tratti di flemma e imbecillità”. E tutti, ahinoi, vincenti.
Vedi, caro mio, tu vuoi giocare a scacchi e io voglio insegnarti le mosse. Voglio dirti dei pezzi e dei pedoni, spiegarti qualche matto elementare e poi qualche principio altrettanto elementare di strategia, dopodiché puoi subito cominciare a giocare: è vero che gli scacchi sono un gioco tremendamente difficile, ma le regole sono semplici, e si imparano subito. Il resto verrà. Ma, insieme a tutto questo, mi piacerebbe aprire pure una breccia in quel mondo di significati, di bellezza e di passione che può fiorire nella ordinata aiuola di una scacchiera, quando un uomo ci si mette di fronte. Osservalo, allora: poi toccherà anche a te. Osserva cosa fa il campione di scacchi prima di sedersi, come sistema i pochi oggetti che ha attorno: il formulario, la penna, la giacca sulla spalliera della sedia. Osservalo mentre corregge impercettibilmente la posizione dei pezzi al centro delle case, mentre con uno sguardo controlla l’orologio o il bordo della scacchiera, perché sia perfettamente parallela a quella del tavolo. Sono i movimenti in tutto analoghi a quelli che esegue un tennista prima del servizio, o un pianista quando si siede al pianoforte e sistema lo spartito. Cosa si nasconde, in tanta metodicità, cosa si cela in tutta questa cura, in questa precisione maniacale, se non la religiosità di un rito, che deve introdurre in uno spazio nuovo e diverso da quello ordinario, da quello abituale?
Chiunque giochi, figlio mio, per prima cosa, devi sapere, fa questo: varca una soglia, supera un confine, attraversa uno specchio. E, com’è naturale, non si raccapezza. Se così non fosse, non ci sarebbe gioco, né avventura: non per Alice, il cui mondo finisce sottosopra, né per te, che hai voluto allontanartene anche solo per qualche ora. Pensaci, però: se giochi, è perché non sai mai come va a finire. Se lo sapessi, non ci sarebbe gioco, né partita. Invece non lo sai, non lo puoi sapere, e allora giochi, ti ci butti, e questa è la prima cosa che si impara, giocando a scacchi: tu puoi imparare le regole, allenarti, esercitarti, dedicarti allo studio con ogni tua energia, ma lo spazio del gioco non si consuma, grazie a tutto questo esercizio, anzi cresce e si potenzia, perché ora vedi più cose: più possibilità, più varianti, più mosse e sequenze di mosse di quante ne vedevi prima. Se attraversi lo specchio vedi un altro mondo.
Ma poi di fronte a te verrà la volta che si siederà un culo di pietra come Mirko Czentovic. Lui ti riporta a terra. Lui è uno a cui non puoi raccontare storie, uno che non si emoziona né commuove. Sarà la volta che imparerai a perdere, allora. Ma non voglio dire solo questo. Questa è una cosa che è vera sempre, credo, per qualunque gioco. Qualunque gioco ti insegnerà a perdere perché, se non sei disposto ad accettare la sconfitta, difficilmente avrai la pazienza – il tempo, la voglia – di imparare. Quando cominci, c’è sempre qualcuno più bravo di te: se non altro, è più bravo di te chi ti ha insegnato le mosse. E questa è una cosa che ha a che fare addirittura con la neotenia della specie umana. Che significa, grosso modo: il piccolo di cerbiatto sta subito sulle sue quattro zampette, appena nato; il cucciolo d’uomo invece no, resta infante a lungo, e per lui la maturità è una conquista lenta e impegnativa.
Ora, dal punto di vista evolutivo sarà pure un vantaggio, per la specie, ma per il singolo individuo è dura: vuol dire che ne dovrà prendere, di legnate, prima di cominciare a darne. Così vedi, figlio mio: io sono più bravo di te, o, meglio, lo sono stato, proprio come mio padre è stato più bravo di me a lungo, fino a quando non si è fatto lui un po’ più anziano e io un po’ più grandicello e le cose sono cambiate, alla scacchiera. Questa cosa dei padri e dei figli ha qualche posto nella mitologia, nella filosofia, nella psicoanalisi: vuol dire che ha una certa importanza. Non era Crono che divorava i suoi figli, non era forse Platone che invitava al parricidio nei confronti di Parmenide, venerando e terribile? E non è Freud ad aver ripescato dal mito la tragica vicenda di Edipo? A scacchi, però, c’è una complicazione psicologica in più, e ho a lungo pensato che stesse semplicemente nel fatto che è un gioco in cui non c’è fortuna ma vince il più bravo, e il più bravo è tale per qualità intellettuali, cioè su un terreno sul quale è molto difficile accettare la superiorità altrui. Sicché, figlio mio, presto imparerai che gli scacchisti sono, tutti o quasi, paladini dell’arte di inventare scuse. Eh, già: avranno anche imparato a perdere, prima di diventare dei campioni, però resta il fatto che, se incappano ancora in qualche giornata storta, pensano sempre che sia accaduto per una incredibile serie di motivi, i più diversi: per tutto, ma non perché l’avversario fosse più bravo.
E scendendo per li rami, giù giù fino al più anziano spingitore di pezzi che gioca ancora a livello amatoriale in qualche scalcagnato circolo di periferia (gli scacchi – sappilo – non sono ricchi, il movimento non è finanziato come gli altri sport, e di imprese sportive ai limiti della sopravvivenza ne potrei citare molte, alcune raccontatemi, altre vissute personalmente, come quella volta – ne ricordo solo una – in cui ci infilammo in quattro in una tenda canadese per due posti, e trascorremmo una settimana alle porte di Latina in un camping infestato dalle zanzare come ai tempi delle paludi pontine ma prima delle bonifiche, mangiando per sette giorni su sette panini a pranzo e a cena, senza il bene di una doccia, senza il piacere di una bibita gelata mai) troverai sempre, volevo dire, chi ti spiegherà di avere perso perché è stato male, perché faceva troppo caldo, perché faceva troppo freddo, perché non si respirava, perché è facile vincere se puoi prepararti a casa ma lui, povero, tempo non ne ha, o, infine, perché ha dormito in quattro in una tenda per due e dormito per modo di dire, con tutte quelle zanzare. Insomma: siamo alle cavallette di John Belushi, quello dei Blues Brothers.
Dopodiché ti stavo dicendo, caro mio, che non solo di questo si tratta, ma del fatto che gli scacchi sono uno sport di contatto: così almeno erano inquadrati nei disciplinari adottati nei mesi del covid, quando ce ne stavamo tutti a casa, tutti a giocare online, e così – vedi le astuzie della ragione! – oggi abbiamo il record di iscritti alla Federazione, la Fsi (che proprio quest’anno ha compiuto un secolo di vita: auguri!). Ora, che vuol dire contatto? Che io tocco i pezzi per muoverli, e li tocchi anche tu, e quando catturi un mio pezzo tocchi il pezzo che ho toccato io, e il virus non si fa pregare due volte per passare da una parte all’altra. Ma poi c’è un altro contatto, quello vero, quello che ti inchioda sulla sedia, quello che si stabilisce con gli occhi. Maurice Merleau Ponty – grande fenomenologo francese – diceva che la visibilità non è mai uno zero di tangibilità, altrimenti come faresti a descrivere la “morbidezza” del bianco di una tovaglia dipinta da Cezanne? Anche gli occhi ti toccano, e stare sotto lo sguardo dell’avversario a un metro di distanza per ore e ore è una prova non piccola che, in taluni casi, può persino trasformarsi in tortura: Bobby Fischer, uno dei più grandi scacchisti di tutti i tempi, uno dei pochi nomi noti anche ai non addetti ai lavori, uno di cui di solito si raccontano le opere e i giorni, quando si vuole salire sull’ottovolante della storia degli scacchi – i campioni, le leggende, le partite memorabili, il buio delle follie – Fischer diceva di amare “il momento in cui mand[ava] in pezzi l’ego dell’avversario”: crash! Dimmi tu se lo sguardo non può scorticarti l’anima! Ma tu imparerai, figlio mio, a resistere anche alle vertigini di parossismo agonistico comportate, a volte, dal gioco.
Imparerai da solo. Io, da parte mia, ti risparmio volentieri la lezione di psicologia: a cosa servono gli scacchi. Stammi a sentire: troverai mille manuali che ti diranno tutto sulle capacità psichiche e mentali dello scacchista – l’intuizione l’attenzione la memoria il calcolo –, qualche volta leggerai che sono di conforto per il manager e il broker finanziario, di insegnamento all’uomo politico e all’investigatore di polizia, di aiuto all’introverso e pure all’estroverso: come giocare a scacchi e vivere felici, impara le mosse e dai scacco alla malasorte, la mossa del cavallo, ovvero: come saltare d’un sol balzo tutte le avversità della vita, sciocchezze simili, che tu metterai ogni cura nell’evitare, se vuoi che gli scacchi, il gioco, la profondità di visione e l’intrico delle varianti, il senso posizionale e gli squilibri tattici ti piacciano ancora e sempre, e non finiscano con l’apparirti solo materiale per insulse metafore o, peggio ancora, un bussolotto di parole da cui pescare per infiocchettare quattro scemenze sull’autoaiuto, sul pensiero strategico, sul metodo che invece è sempre, come diceva con brusca schiettezza Lucio Colletti, la “scienza dei nullatenenti”.
Torniamo alla scacchiera, figlio mio: dove eravamo rimasti? Chi è seduto davanti a te? Ah, già: Mirko Czentovic. Ricordi come Zweig lo descrive? Come una imbecille macchina calcolatrice, priva di qualunque sensibilità, ma più forte di chiunque, più forte degli altri campioni che sono stati matematici o musicisti, ingegneri o uomini di lettere. Oppure artisti, come Marcel Duchamp. Dopo aver presentato, nel 1923, il Grande Vetro – La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche: un grumo di significati in cui rimane irrisolta, impigliata l’intera tradizione occidentale – Duchamp annuncia al mondo, oppure agli amici, che basta, di lì innanzi lascerà perdere l’arte e si dedicherà solo agli scacchi (divenendo maestro internazionale, mica cotiche). Però le due cose per lui dovevano avere qualche rapporto, visto che nel 1944 organizza insieme a Max Ernst un torneo di scacchi che è parte della mostra The Imagery of Chess, alla quale contribuiscono artisti del calibro di Alexander Calder, Robert Motherwell, John Cage, e insomma, altro che Czentovic: siamo nel bel mezzo delle avanguardie artistiche del Novecento e Duchamp scrive: “I pezzi sono un alfabeto a blocchi, con cui formare pensieri, e questi pensieri, senza farsi visibili sulla scacchiera, esprimono la loro bellezza astrattamente, come un poema… Sono giunto alla conclusione che mentre non tutti gli artisti sono anche scacchisti, tutti gli scacchisti sono artisti”.
Intanto, Czentovic culo di pietra non si è smosso di un millimetro. Se tu ti perdi dietro questi pensieri (io me lo auguro), lui usa tutto il suo tempo per una cosa sola: batterti. Non sa fare altro. E’ come un computer. Di computer e motori scacchistici Zweig non sapeva nulla, in realtà. Al massimo, poteva conoscere solo le riflessioni di Edgar Allan Poe, il quale aveva ragionato così: nel gioco degli scacchi domina l’incertezza, perché non è possibile anticipare le mosse che farà l’avversario; dunque, non può essere puramente macchinico il congegno che dovesse giocargli contro. E perciò Poe esclude “a priori” che fossero farina del suo sacco le mirabolanti prestazioni scacchistiche dell’automa abbigliato come un turco con tanto di turbante e narghilè, sbarcato dall’Europa in America e portato in giro per stupire, nelle fiere, chiunque lo sfidasse. Aveva ragione, il trucco c’era davvero: in una cassa posta sotto il tavolo da gioco se ne stava un fortissimo giocatore di scacchi, un nano con doti da fachiro, che dal suo scomodissimo nascondiglio, non visto, azionava la macchina e vinceva le partite.
La figura del nano scacchista ha poi avuto la sua fama: torna, infatti, in chiave messianica, nelle celebri tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, e soprattutto scorrazza, col nome di Fischerle, nelle pagine di quel capolavoro assoluto che è Autodafé, di Elias Canetti. A me piace molto l’idea che, con una scacchiera sotto braccio, si possa condurre una vita sbandata, di espedienti e di raggiri, matta e sregolata e però bella e intensa. Come Fischerle, ne ho conosciuti di slavi fuggiti dall’est Europa ancora sotto il tallone dell’Urss, costretti a sbarcare il lunario giocando a scacchi per pochi spiccioli a margine dei tornei ufficiali. Li ho conosciuti e confesso: non erano omini ma omoni, e ne ho avuto infinita simpatia. Se ti va, caro mio, puoi leggere Il club degli incorreggibili ottimisti di Jean-Michel Guenassia, e respirare un po’ di aria parigina, di dissidenza, scacchi e libertà: ti ho detto, all’inizio, che il mondo non lo avrei tenuto da parte.
Però, prima di concludere, dobbiamo smuovere il convitato di pietra. Che non è Mirko Czentovic. Lui possiamo lasciarlo giocare e (spoiler) perdere, incredibilmente. Che storia si inventa Zweig! A sconfiggere il campione è un certo dottor B., che ha imparato a giocare in prigionia, senza aver mai mosso prima pezzi su una scacchiera: non ce l’aveva, la scacchiera, non aveva nulla, salvo un libro sfilato dalla tasca di un soprabito. E dal libro, una volta compresi i simboli con cui sono trascritte le partite, aveva fatto rinascere il gioco (non ci vuol molto: è come la battaglia navale, ogni casa ha un nome e, quanto ai pezzi, si usano le iniziali: Cf3 significa ad esempio che il Cavallo è balzato nella casa f3. Se non c’è l’iniziale, a muoversi è stato un pedone, se c’è una “x” c’è stata una cattura, per cui “axb3” significa che il pedone “a” è in b3, dopo una presa; se c’è il simbolo 0-0 vuol dire che il giocatore ha eseguito l’arrocco dal lato di Re; 0-0-0, arrocco dal lato di donna. E’ tutto, o quasi).
Ma è una favola che un’autodidatta possa sconfiggere il campione del mondo in carica, una romanticheria che solo a Zweig possiamo concedere. Il fatto è che, col computer, non sono possibili poetiche sorprese: dalla vittoria del supercomputer dell’Ibm, Deep Blue, contro Garry Kasparov (1997) a oggi, il fossato si è allargato definitivamente e non può più essere colmato. E a Demis Hassabis, l’ingegnere che è stato a capo del team AlphaZero, quest’anno hanno pure dato il Nobel (per la chimica, cioè per i calcoli che i suoi algoritmi consentono di sviluppare a servizio dello studio delle proteine). AlphaZero ha stupito il mondo perché, a differenza dei precedenti motori, ha imparato da solo, proprio come il dottor B. Al quale Zweig, pur nella fantasia del racconto, ha comunque dovuto concedere qualche anno di prigionia per riuscire nell’impresa. AlphaZero no: ha impiegato sole quattro ore per giocare milioni di partite contro se stesso e divenire più forte di qualunque altra macchina sul mercato (e, a fortiori, di qualunque esemplare della specie homo sapiens sapiens). Quattro ore: con ogni evidenza, i computer non sono animali neotenici.
Non farti dunque illusioni, figlio mio: io ti insegno a giocare a scacchi, ti porto al circolo, ti accompagno ai tornei, ti racconto le storie dei campioni, ti compro i libri sulle aperture e mi faccio ancora qualche partita blitz con te, una di quelle partite veloci che lasciano di stucco i meno esperti, ma se non sarai tu a chiedertelo ci sarà di sicuro qualcuno che ti chiederà: ma allora che senso ha continuare a giocare, se il computer è più forte dell’uomo, se vince sempre: regolarmente, invariabilmente, inevitabilmente? Allora, stammi a sentire, prova a rispondere così: vedi, caro lettore, ha senso giocare perché il computer tutto può fare meno dare un senso a quello che fa. Quello è ancora affar nostro. Questo non vuol dire che per giocare devi avere in testa tutta la materia che ho infilato in questo articolo. Non devi pensare a Duchamp e a Merleau Ponty, non devi leggere Canetti o Guenassia, e puoi bellamente fregartene di considerazioni psicologiche, antropologiche, filosofiche varie e assortite.
Però, anche quando avrai sfrondato gli scacchi da tutta questa roba, avrai la ragazza da battere al tavolino del caffè, magari imbrogliando come Woody Allen in “Ciao Pussycat”, avrai il campione da ammirare e la vecchia gloria da ascoltare, avrai il gusto del rompicapo da soddisfare, avrai le tue piccole trascurabili abitudini in cui rifugiarti al termine della giornata e le domeniche da trascorrere con gli amici, avrai voglia di agonismo o di goliardia, avrai tutte le cose in cui gli scacchi si possono riversare, riempiendo angoli più o meno grandi della tua vita. Sono profondi, gli scacchi: ti ci puoi immergere per ore, dimenticandoti persino del tempo che passa, continuandoci a pensare anche quando hai ormai lasciato la scacchiera, perché ti si sono impressi nella mente, come una canzone o come la scena di un film, ma non credere: non sono profondi loro, ma l’animo umano. Diceva Eraclito: “I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos”. Ora ti dico una bugia, ma è degli scacchi che parlava: tu metti i confini, una scacchiera e 64 case bianche e nere, e l’anima percorrerà all’infinito le sue vie, cercando il suo logos. La sua ragione, e la sua misura.